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50.ma Settimana Sociale: intervento di Elena Granata, Vicepresidente del Comitato Scientifico e Organizzatore

Esattamente un anno fa, scrivendo il Documento preparatorio alla Settimana sociale, decidemmo concordi che non avremmo raccontato… quello che manca a questo Paese. Quello che manca alla vita pubblica e civile (che pure vediamo), l’Italia dei “senza”: senza cittadini, senza abitanti, senza medici, senza fedeli, senza lavoratori, senza figli. Senza.
Decidemmo concordi che ci saremmo invece dedicati a mettere a fuoco l’Italia che c’è, che partecipa, che innova, che rischia, quella che “sta nel mezzo”.
Scrivevamo … “Possiamo dispiacerci della mancata partecipazione, del non voto, della fuga dalle chiese, del disinteresse per molti temi sociali e politici, cercando di riportare – impresa impossibile – le persone a fare le cose che un tempo facevano spontaneamente. Oppure possiamo provare a comprendere che cosa desiderano, cosa cercano, lungo quali sentieri stanno camminando le donne e gli uomini di questo Paese. Riconoscere il protagonismo di tanti cittadini che si stanno rimboccando le maniche, ma che forse abbiamo perso di vista.
Se leggiamo con sguardo sapienziale quello che si muove nel tessuto sociale, possiamo scorgere tante energie positive ed esperienze innovative”.

È una questione di sguardo. Siamo oggi di fronte a una partecipazione delle donne alla vita pubblica senza precedenti, in ogni ambito politico, culturale, scientifico. Non si può non cogliere una nuova attenzione diffusa per l’ambiente e la sua tutela; sono moltissimi i giovani impegnati in attività di volontariato, in forme diverse di attivismo ambientale, anche radicale. Emerge una nuova aspettativa di qualità della vita che si traduce in domanda di più tempo per sé e per la famiglia, in domanda di più verde nelle città, in domanda di più gratificazione nel lavoro. Sono soprattutto i giovani a chiedere di poter conciliare meglio le diverse dimensioni della vita: lavoro, vita privata, tempo, contesto. Una domanda di senso che poi, in fondo, ci sollecita tutti.
Ci sono uomini e donne attivi nei luoghi della vita quotidiana, nei quartieri, nelle reti di prossimità, nelle azioni in difesa del pianeta e della biodiversità, nei luoghi della povertà e della sofferenza, tra i ragazzi nelle scuole, nei luoghi dove si fa impresa e innovazione. E questi uomini e queste donne osano, propongono, mettono a terra idee e progetti. Poeti sociali li chiama papa Francesco, “seminatori di cambiamento”.

Questo sguardo, d’altra parte, non ci impedisce di vedere come la sfera pubblica e la politica si stiano impoverendo e svuotando di senso.  Una distanza dalla vita pubblica che non si può imputare solo a scelte personali o al solito luogo comune che siamo tutti più individualisti ma nasce da un profondo processo di privatizzazione degli spazi pubblici (ridotti a spazio di consumo) che in pochi decenni ha ridotto le occasioni – e l’attitudine – al contatto tra le persone. C’è un’immensa provincia italiana che vive fuori dai radar e di cui non si parla mai, che preferisce sparire piuttosto che reagire, che naufraga nel vuoto dei bisogni e della propria solitudine. Per questo la Settimana sociale sarà soprattutto un’esperienza di piazza, di piazze.

Ci domandiamo allora: in questi contesti in cui la comunità si sfrangia cosa significa “partecipazione”? e perché dovremmo “partecipare”?
Forse dovremmo accettare, una volta per tutte, che la partecipazione non potrà più avvenire nelle forme del passato.
Partecipare non potrà essere solo prendere parte – come spiega la filosofa francese Joëlle Zask – come si prende parte a una cena o a un convegno ma dovrà diventare un’occasione per portare il proprio contributo (pensiamo alla sistematica esclusione delle donne), per partecipare anche ai benefici derivanti dall’azione collettiva, così come avviene in un’impresa dove gli individui partecipano ai benefici della società di cui fanno parte.

È importante capire perché la gente non partecipa?
Forse perché nessuno li coinvolge…Ricorrono quest’anno due centenari: quello di Franco Basaglia “il medico dei matti” e quello di Danilo Dolci “il pedagogista dei poveri”. Le loro storie ci dicono quanto possa essere rivoluzionario il modo in cui guardiamo agli altri e a noi stessi. Ciascuno cresce solo se sognato, diceva Danilo Dolci. Da vicino nessuno è normale, diceva Franco Basaglia.
Entrambi ci hanno insegnato il potere dello sguardo, e quanto sia importante saper coinvolgere: che vuol dire chiamare in causa, scomodare, attivare, saper dare inizio.
Non solo fare noi (quanto titanismo c’è nel pensare di dover fare sempre tutto da soli), ma saper coinvolgere, lasciar fare anche agli altri, motivandoli.
E poi saper riconoscere: se le persone non si sentono riconosciute nel loro valore e nelle loro differenze (penso ai giovani, alle donne, a persone di altre culture, ai poveri) non partecipano.

E poi c’è il problema dei problemi. Quel paradossale destino della partecipazione… per cui più essa si fa inclusiva, complessa, onesta, più risulta, di fatto, incapace di arrivare a una sintesi condivisa. La fatica di elaborare proposte e visioni induce molti più che alla partecipazione (come l’abbiamo sempre intesa) a spendersi in azioni concrete. Perché è in questa dimensione del fare e dell’agire che è più facile sperimentare la gratificazione di un qualche risultato in tempi ragionevoli.
Ed è in questo spazio dell’azione, qui e ora, che opera una società civile ancora sana, che si prende cura dei beni comuni, che promuove progetti ecologici e di salvaguardia della natura, che si fa carico di azioni solidali rivolte ai più deboli.
Molte di queste esperienze si distinguono certo per la capacità di coinvolgere le persone, ma stentano ad avere rapporti con la politica e spesso ne diffidano apertamente.
La politica, a sua volta, raramente valorizza queste pratiche concrete e raramente le incorpora nel processo istituzionale. Questo divario è profondamente scoraggiante e ci richiede la capacità di riannodare i fili tra fare e pensare, tra azioni locali e politica nazionale. Dobbiamo diventare palestre di democrazia dice Giovanni Moro richiamando Toqueville. Palestre di democrazia, piazze di democrazia.

Non è facile. La partecipazione ha una natura complessa, che sempre ha a che fare con la ragione e col sentimento, con i bisogni e con i desideri; muove le passioni e gli interessi (direbbe Hirshman), ha una natura espressiva: partecipo perché partecipare mi piace, perché mi fa bene, perché ha un senso. Ma poi – la partecipazione ­– ha sempre, anche, una natura strumentale: partecipo perché mi conviene, perché ha anche un valore pratico, di tutela di interessi specifici e utilità concrete che derivano dall’azione in comune (pensiamo ai diritti, ad alcune decisioni, ai servizi).

La partecipazione accade, spontanea, come fosse una reazione chimica, quando si riesce a superare il confronto faticoso e dogmatico, o a superare la tentazione di pensare che il dialogo non serva a nulla; quando cominciamo a fidarci gli uni degli altri superando le diffidenze reciproche, riconoscendo senza timore conflitti e posizioni antagoniste, superando le paure e le ansie. Accade quando l’ambiente improvvisamente si scalda e si accende un confronto che non è solo mentale o intellettuale, ma anche fisico, fatto di empatia, fatto di calore umano. La partecipazione accade, spontanea, dopo ogni alluvione, dopo ogni catastrofe, quando vediamo le persone unirsi in nome di una comune rinascita. Abbiamo negli occhi le immagini della Valle d’Aosta…

E infine, la partecipazione ha un legame ineludibile con i luoghi. Senza luoghi veri, reali, senza quello spazio-tra-le-case, senza i paesi o i quartieri, senza quelle piazze dove le persone si incrociano, la comunità non comunica, e si trasforma in una semplice, passiva spettatrice.
La democrazia è tale se “si fa luogo”, se si incarna nelle storie locali, che poi diventano domande, servizi e istituzioni per tutti. È questa la storia di Maria Montessori, di Adriano Olivetti, di Franco Basaglia, di Danilo Dolci, per ricordare solo qualcuno tra i grandi. È nei luoghi che abbiamo ritrovato il senso della prossimità durante la pandemia; è nei luoghi che dobbiamo trovare le soluzioni alla sfida energetica, attivando comunità capaci di collaborare per la produzione e la condivisione dell’energia; è nei luoghi che torna centrale la produzione alimentare (che significa anche cura della terra e del paesaggio); è nei luoghi che affrontiamo la sfida climatica, promuovendo azioni concrete di mitigazione ambientale, di contenimento degli effetti della siccità e delle inondazioni. Ed è quindi, ancora nei luoghi che possiamo ricostruire le condizioni della partecipazione popolare e del confronto, come elemento di salute del corpo sociale.

Arriviamo a Trieste con un anno di lavoro sulle spalle. C’è un dossier – che è stato curato da Giovanni Grandi con Matteo Cremaschini, Paola Massi, Luca Micelli e Filippo Vanoncini – che raccoglie le riflessioni dei 2000 partecipanti al percorso preparatorio delle Settimane Sociali. Dal documento emergono alcune questioni che ci paiono rilevanti:

Punto 1 – Emerge una potente attesa di ri-generazione e cura degli “spazi intermedi”: dei luoghi, dei luoghi comunitari, a misura di uomini e di donne, in cui poter sperimentare processi partecipativi e coltivare relazioni significative.

Punto 2 – Emerge una domanda ineludibile di “politica”: il futuro occorre immaginarlo e pensarlo insieme. Magari sacrificando qualcosa in termini di rapidità dell’azione ma assicurandosi un maggior grado di inclusione in tutti i processi.

Abbiamo riscoperto i benefici della partecipazione. Partecipare ad un’azione sociale crea coesione, infonde motivazione e accresce le competenze personali, favorisce lo sviluppo della capacità di coordinamento, rende le iniziative più incisive sia dal punto di vista sociale sia dal punto di vista politico. Ci abilita, ci rende capaci, è fonte di empowerment.
Ma anche le fatiche. D’altra parte, la partecipazione si scontra con resistenze ricorrenti: deficit di ascolto e di accoglienza, autoreferenzialità personale (ma anche di gruppo); l’atteggiamento giudicante dei leader; l’assenza di riconoscimento del lavoro, lo scarso coinvolgimento e la mancanza di condivisione.
Mi avvio alla conclusione. La partecipazione è faticosa ma genera legame sociale, costa tempo ed energie ma quando funziona consente alle persone di fare un’esperienza personale ma anche comunitaria. Ma non basta la buona volontà e l’iniziativa dispersa di qualche volonteroso. La partecipazione può essere organizzata e facilitata, diventare un’abitudine e uno stile di relazione.
Oggi ci è richiesta – collettivamente – una grande intelligenza connettiva, capace di collegare le cose tra loro, di riannodare in fili tra fare e pensare, tra azioni locali e nate dal basso e politica. Dobbiamo immaginare una sorta di filiera corta della politica, che accorci le distanze tra pensiero politico e azione.
Tra il tempo breve dell’azione (quelle azioni locali che tanto impegnano molti di noi) e il tempo lungo del pensiero dovremmo fare spazio ad un agire-pensante, capace di essere inclusivo delle molte voci senza perdersi in discussioni oziose, in grado di imparare per intelligenza progressiva e dalla cultura dell’errore. Si sbaglia e si impara.
Un agire-pensante che abbandoni l’illusione dei princìpi assoluti per accettare l’imperfezione connaturata ad ogni azione collettiva.
Questo ci attende in queste giornate triestine, un grande lavoro comune, un lavoro di piazza, un lavoro di popolo, buona Settimana a tutti.