Ritiro sinodale, le prime due meditazioni di padre Radcliffe
Riceviamo e pubblichiamo i testi integrali delle riflessioni spirituali tenute domenica mattina, primo ottobre, dal frate domenicano ed ex maestro dell’Ordine dei Predicatori ai partecipanti all’assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, riuniti in ritiro alla “Fraterna Domus” di Sacrofano (Fonte Vatican News)
Meditazione n. 1
“Sperare contro ogni speranza”
Quando il Santo Padre mi ha chiesto di predicare questo ritiro, mi sono sentito molto onorato, ma anche nervoso. Sono profondamente consapevole dei miei limiti personali. Sono anziano – bianco – occidentale – e uomo! Non so che cosa sia peggio! Tutti questi aspetti della mia identità limitano la mia comprensione. Vi chiedo quindi perdono per l’inadeguatezza delle mie parole.
Siamo tutti radicalmente incompleti e abbiamo bisogno gli uni degli altri. Karl Barth, il grande teologo protestante dei cattolici ha scritto “e/e”. Per esempio, Scrittura e tradizione, fede e opere. Si racconta che lo abbia definito il “dannato ‘e’ cattolico”, “das verdammte katholische ‘Und’”. Quindi prego perché, quando nelle prossime settimane ci ascolteremo reciprocamente e non saremo d’accordo, possiamo dire spesso “Sì, e…” invece che “No”! È questa la via sinodale. Naturalmente qualche volta è necessario anche il No!
Nella seconda lettura delle Messa, oggi, san Paolo dice ai Filippesi: “rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti” (Filippesi 2, 2). Siamo qui insieme perché non siamo uniti nel cuore e nella mente. La stragrande maggioranza di quanti hanno partecipato al processo sinodale è rimasta sorpresa dalla gioia. Per molti è la prima volta che la Chiesa li ha invitati a parlare della loro fede e speranza. Ma alcuni di noi hanno paura di questo cammino e di ciò che abbiamo di fronte. Alcuni sperano che la Chiesa venga cambiata drasticamente, che prendiamo decisioni radicali, per esempio sul ruolo delle donne nella Chiesa. Altri hanno paura proprio di questi cambiamenti e temono che portino solo alla divisione, addirittura allo scisma. Alcuni di voi preferirebbero proprio non essere qui. Un vescovo mi ha raccontato di aver pregato di non essere scelto per venire qui. La sua preghiera è stata esaudita. Voi potreste essere come il figlio del vangelo odierno, che all’inizio non voleva andare nella vigna, ma poi ci va!
Nei momenti fondamentali, nei vangeli sentiamo sempre queste parole: “non abbiate paura”. San Giovanni ci dice che “l’amore perfetto scaccia il timore”. Incominciamo, dunque, pregando perché il Signore liberi i nostri cuori dalla paura. Per alcuni si tratta di paura del cambiamento, per altri di paura che nulla cambierà. “Ma la sola cosa che dobbiamo temere è la paura stessa” (1).
Naturalmente tutti noi abbiamo delle paure, tuttavia san Tommaso d’Aquino ci ha insegnato che il coraggio è rifiutarsi di essere schiavi dalla paura. Possiamo essere sempre sensibili alle paure altrui, specialmente quelle di coloro con cui siamo in disaccordo! “Come Abramo, partiamo senza sapere dove andiamo” (cfr. Ebrei 11, 8). Ma se libereremo i nostri cuori dalla paura, sarà molto più bello di quanto possiamo immaginare.
A guidarci in questo ritiro sarà la meditazione sulla Trasfigurazione. È questo il ritiro che Gesù dà ai suoi discepoli più prossimi prima che si avventurino nel primo sinodo della vita della Chiesa, mentre camminano insieme (syn-hodos)verso Gerusalemme. Quel ritiro era necessario perché avevano paura del viaggio che dovevano compiere insieme. Finora hanno percorso in lungo e in largo il nord d’Israele. Ma a Cesarea di Filippo, Pietro ha confessato che Gesù è il Cristo. Poi Gesù li invita a recarsi con lui a Gerusalemme, dove soffrirà, morirà e sarà resuscitato dai morti. Loro non riescono ad accettarlo. Pietro cerca di impedirglielo. Gesù lo chiama “Satana”, “nemico”. La piccola comunità è paralizzata. Così Gesù la porta sul monte. Ascoltiamo il racconto di san Marco di quanto è accaduto.
“Dopo sei giorni, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e discorrevano con Gesù. Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: ‘Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!’. Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento. Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra e uscì una voce dalla nube: ‘Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!’. E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro” ( Marco 9, 2-8).
Quel ritiro dà loro il coraggio e la speranza per mettersi in cammino. Non va sempre molto bene. Subito non riescono a liberare il bambino dallo spirito maligno. Litigano su chi è il più grande. Fraintendono il Signore. Ma sono in cammino con una fragile speranza.
Così anche noi ci prepariamo al sinodo svolgendo un ritiro dove, come i discepoli, impariamo ad ascoltare il Signore. Quando ci metteremo in cammino, tra tre giorni, saremo spesso come quei discepoli e ci fraintenderemo e addirittura litigheremo. Ma il Signore ci guiderà per andare avanti, verso la morte e risurrezione della Chiesa. Chiediamo anche al Signore di darci speranza: la speranza che questo sinodo porti a un rinnovamento della Chiesa e non alla divisione; la speranza che ci avvicineremo di più gli uni agli altri come fratelli e sorelle. È questa la nostra speranza non solo per la Chiesa cattolica, ma anche per tutti i nostri fratelli e sorelle battezzati. La gente parla di un “inverno ecumenico”. Noi speriamo in una primavera ecumenica.
Ci riuniamo anche nella speranza per l’umanità. Il futuro sembra buio. La catastrofe ecologica minaccia di distruggere la nostra casa. Quest’estate incendi e inondazioni hanno divorato il mondo. Piccole isole iniziano a scomparire sotto il mare. Milioni di persone sono per strada, in fuga da povertà e violenza. Centinaia di persone sono affogate nel Mediterraneo, non lontano da qui. Molti genitori si rifiutano di far nascere bambini in un mondo che appare condannato. In Cina, i giovani indossano magliette con la scritta “siamo l’ultima generazione”. Riuniamoci nella speranza per l’umanità, specialmente nella speranza per i giovani.
Non so quanti genitori sono presenti al sinodo, ma grazie per avere a cuore il nostro futuro. Dopo un periodo difficile in Sud Sudan, al confine con il Congo, sono tornato in Gran Bretagna in aereo, seduto accanto ad un bambino che ha gridato ininterrottamente per otto ore. Mi vergogno di ammettere di avere avuto pensieri assassini! Ma non c’è ministero sacerdotale più meraviglioso che far crescere bambini e cercare di aprire la loro mente e il loro cuore alla promessa della vita. Genitori e insegnanti sono ministri di speranza.
Ci riuniamo dunque nella speranza per la Chiesa e per l’umanità. Ma sta qui la difficoltà: abbiamo speranze contraddittorie! Come possiamo dunque sperare insieme? In questo siamo proprio come i discepoli. La madre di Giacomo e Giovanni sperava che i figli sedessero alla sinistra e alla destra del Signore in gloria e quindi togliessero il posto a Pietro; c’è rivalità anche nella cerchia più ristretta degli amici di Gesù. Giuda probabilmente sperava in una ribellione che avrebbe cacciato i romani. Alcuni di loro forse speravano semplicemente di non essere uccisi. Ma continuano a camminare insieme. Quale speranza condivisa possiamo avere noi?
All’Ultima Cena hanno ricevuto una speranza che va oltre a tutto ciò che avrebbero potuto immaginare: il corpo di Cristo e il suo sangue, la nuova alleanza, la vita eterna. Alla luce di questa speranza eucaristica, tutte le loro speranze contrastanti devono essere sembrate nulle, tranne che per Giuda, che si disperava. È questo che san Paolo ha definito “sperare contro ogni speranza” (cfr. Romani 4, 18), la speranza che trascende ogni nostra speranza.
Anche noi siamo riuniti come i discepoli all’Ultima Cena, non come camera di dibattito politica in gara per vincere. La nostra speranza è eucaristica. Ho avuto un primo assaggio di ciò che significa nel 1993 in Rwanda, quando i problemi stavano appena iniziando. Avevamo programmato di visitare le nostre suore Domenicane nel nord, ma l’ambasciatore belga ci disse di restare a casa. Il Paese era in fiamme. Ma io ero giovane e stolto. Ora sono vecchio e stolto! Quel giorno abbiamo visto cose terribili: una corsia d’ospedale piena di bambini piccoli che avevano perso gli arti a causa di mine e bombe. Un bambino aveva perso entrambe le gambe, un braccio e un occhio. Il padre era seduto acanto a lui e piangeva. Sono andato a piangere nella boscaglia, accompagnato da due bambini, entrambi saltellanti su una sola gamba.
Siamo andati dalle nostre suore, ma che cosa potevo dire? Dinanzi a una tale violenza insensata non ci sono parole. Poi ho ricordato le parole del Signore, “Fate questo in memoria di me”. Ci viene affidato qualcosa da fare. Durante l’Ultima Cena sembrava non esserci futuro. In apparenza non si prospettava altro che fallimento, sofferenza e morte. E in quel momento più buio, Gesù ha fatto il gesto più ricco di speranza nella storia del mondo: “Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi. Questo è il mio sangue, versato per voi”. È questa la speranza che ci chiama al di là di qualsiasi divisione.
Uno dei miei fratelli nell’est dell’Ucraina si è recato a dire messa per alcune sorelle che stavano traslocando. Tutto era impacchettato. Come patena non potevano offrire altro che un piatto di plastica rosso. Egli ha scritto: “È così che Dio ci ha mostrato di essere con noi. ‘Sei seduto in una cantina, tra l’umidità e la muffa, ma io sono con te – sul piattino di plastica rosso da bambino e non su una patena d’oro’”. È questa la speranza eucaristica del presente cammino sinodale. Il Signore è con noi.
La speranza dell’Eucaristia riguarda ciò che va oltre la nostra immaginazione, il libro dell’Apocalisse: “Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: ‘La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello’” (Apocalisse 7, 9s.). È questa la speranza che i discepoli hanno intravisto sul monte nel Signore Trasfigurato. Fa sembrare il conflitto tra le nostre speranze poco importante, quasi assurdo. Se davvero siamo in cammino verso il Regno, è realmente importante se vi allineate con i cosiddetti tradizionalisti o progressisti? Anche le differenze tra Domenicani e Gesuiti diventano insignificanti! Quindi ascoltiamolo, scendiamo dal monte e continuiamo a camminare con fiducia. I doni più grandi giungeranno da coloro con cui saremo in disaccordo se avremo il coraggio di ascoltarli.
Nel corso del nostro cammino sinodale forse ci domanderemo se stiamo concludendo qualcosa. I media probabilmente decideranno che è stato solo una perdita di tempo, solo parole. Guarderanno se vengono prese decisioni audaci su quattro o cinque temi scottanti. Ma i discepoli di quel primo sinodo, camminando verso Gerusalemme, sembravano non concludere nulla. Cercarono perfino di impedire che il cieco Bartimeo venisse guarito. Apparivano inutili. Quando le grandi moltitudini affamate si riuniscono attorno a Gesù, i discepoli domandano al Signore “E come si potrebbe sfamarli di pane qui, in un deserto?”. Gesù chiede loro quello che hanno, appena sette pani e pochi pesci (cfr. Marco 8, 1-10). È più che abbastanza. Se in questo sinodo daremo con generosità ciò che abbiamo, sarà più che sufficiente. Il Signore della messe provvederà.
Accanto alla nostra prioria a Baghdad c’è una casa per bambini abbandonati di tutte le fedi, gestito dalle suore di Madre Teresa. Non dimenticherò mai la piccola Nura, di circa otto anni, nata senza braccia e gambe, che dava da mangiare ai bambini più piccoli con un cucchiaio tenuto con la bocca. Ci si può domandare che senso hanno i piccoli atti di bontà in una zona di guerra. Fanno qualche differenza? Non è semplicemente come mettere dei cerotti su un corpo in decomposizione? Noi compiamo piccole azioni e lasciamo che il Signore della messe dia loro il frutto che lui desidera. Oggi siamo qui riuniti nella festa di santa Teresa di Lisieux. Nata 150 anni fa, ci invita a seguire la sua “piccola via” che conduce al Regno. Ha detto “Ricordate che nulla è banale agli occhi di Dio”.
Ad Auschwitz l’ebreo italiano Primo Levi ogni giorno riceveva un tozzo di pane da Lorenzo. Scrisse: “io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; ne non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio […]; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi […]. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo”(2). Quella piccola porzione di pane ha salvato la sua anima.
Le ultime parole di san David, patrono del Galles, sono state: “fate bene piccole cose”. La nostra speranza è che qualunque piccola cosa faremo in questo sinodo, essa darà frutti ben oltre la nostra immaginazione. Quell’ultima sera Gesù ha dato se stesso ai discepoli: “vi offro me stesso”. Durante questo sinodo, condividiamo non solo le nostre parole e convinzioni, ma anche noi stessi, con generosità eucaristica. Se apriremo i nostri cuori gli uni agli altri, accadranno cose meravigliose. I discepoli raccolgono tutti i pezzi di pane e di pesce rimasti dopo avere dato da mangiare a cinquemila persone. Nulla va perduto.
Un ultimo punto. Pietro cerca di impedire a Gesù di andare a Gerusalemme perché per lui non ha senso. È assurdo andarvi per essere ucciso. La disperazione non è pessimismo, bensì il terrore che nulla abbia più senso. E la speranza non è ottimismo, bensì la fiducia che tutto ciò che viviamo, tutta la nostra confusione e il nostro dolore, in qualche modo verranno visti come aventi un senso. Abbiamo fiducia, come dice san Paolo: “Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Corinzi 13, 12).
La violenza insensata distrugge ogni significato e uccide la nostra anima. Quando san Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador, visitò la scena di un massacro compiuto dall’esercito salvadoregno, s’imbatté nel corpo di un giovane sdraiato in un fosso: “Era solo un bambino, in fondo al fosso, con il viso rivolto verso l’alto. Si potevano vedere i fori di proiettile, i lividi lasciati dai colpi, il sangue rappreso. Gli occhi erano aperti, come se domandasse perché era morto e non capisse” (3). E tuttavia era stato in quel momento che aveva scoperto il senso della sua vita e la chiamata ad abbandonarla. Sì, aveva avuto paura fino all’ultimo. Il suo corpo morto era intriso di sudore mentre guardava l’uomo che stava per ucciderlo. Ma non era più schiavo della paura.
Spero che in questo sinodo non ci sarà violenza! Però probabilmente ci domanderemo spesso qual è il senso di tutto questo; tuttavia se ascolteremo Lui e ci ascolteremo gli uni gli altri, finiremo col comprendere la via per andare avanti. È questa la nostra testimonianza cristiana in un mondo che spesso ha perso fiducia nel fatto che la vita umana ha un significato. Il Macbeth di Shakespeare afferma che la vita non è altro che un “racconto fatto da un idiota, pieno di grida e furia, che non significa niente” (4). Ma pregando e riflettendo insieme sulle grandi questioni che la Chiesa e il mondo devono affrontare, offriamo testimonianza della nostra speranza nel Signore che dà senso a ogni vita umana.
Ogni scuola cristiana è una testimonianza della nostra speranza nella “luce [che] splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Giovanni 1, 5). A Baghdad i Domenicani hanno fondato un’accademia che ha come motto “Qui nessuna domanda è vietata”. In mezzo a una zona di guerra, la scuola testimonia la nostra speranza che la stupidità della violenza non abbia l’ultima parola. Homs, in Siria, è una città largamente distrutta a causa della violenza insensata. Ma lì, in mezzo alle rovine, abbiamo scoperto una scuola cattolica. Il gesuita olandese Franz van der Lugt si è rifiutato di andarsene nonostante le minacce di morte. Gli hanno sparato mentre era seduto in giardino. Ma abbiamo trovato un anziano gesuita egiziano che ancora insegnava. Stava preparando un’altra generazione di bambini perché potessero continuare a cercare di dare un senso alla loro vita. È questo l’aspetto che ha la speranza.
Quindi, fratelli e sorelle, possiamo essere divisi da speranze diverse. Ma se ascolteremo il Signore e se ci ascolteremo gli uni gli altri, cercando di capire la sua volontà per la Chiesa e il mondo, saremo uniti in una speranza che trascende i nostri disaccordi e verremo toccati da colui che sant’Agostino ha definito quella “bellezza così antica e così nuova […] Ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace” (5). Nel prossimo incontro esamineremo un altro modo in cui possiamo essere divisi, attraverso la nostra comprensione del tipo di casa che è la Chiesa.
Note:
(1) Franklin D. Roosevelt
(2) Survival in Auschwitz, “The Tablet”, 21 gennaio 2006
(3) Scott Wright Oscar Romero and the Communion of Saints, Orbis New York 2009, p. 37
(4) Macbeth, atto V scena V
(5) Confessioni, lib. VII, lettura del Breviario per la sua festa
Meditazione n. 2
“A casa in Dio e Dio a casa in noi”
Giungiamo a questo Sinodo con speranze contrastanti. Ma ciò non deve essere un ostacolo insuperabile. Siamo uniti nella speranza dell’Eucaristia, una speranza che abbraccia e trascende tutto ciò che desideriamo.
Eppure c’è un’altra fonte di tensione. La nostra concezione della Chiesa come casa a volte è contrastante. Ogni creatura vivente ha bisogno di una casa per poter prosperare. I pesci hanno bisogno di acqua e gli uccelli di nidi. Senza una casa, non possiamo vivere. Le diverse culture hanno concezioni diverse di ciò che sia la casa. L’Instrumentum Laboris ci dice che “l’Asia ha offerto l’immagine della persona che si toglie le scarpe per varcare la soglia, come segno di umiltà per disporsi all’incontro con l’altro e con Dio; l’Oceania ha proposto l’immagine della barca; l’Africa ha insistito sull’immagine della Chiesa famiglia di Dio, capace di offrire appartenenza e accoglienza a tutti i suoi componenti, nella loro varietà” (B 1,2). Ma tutte queste immagini mostrano che abbiamo bisogno di un luogo in cui poter essere accettati e allo stesso tempo sfidati. A casa siamo ci affermiamo per quello che siamo e veniamo invitati a essere di più. La casa è il luogo in cui veniamo conosciuti e amati, dove siamo al sicuro, ma è anche il luogo anche in cui siamo sfidati a intraprendere l’avventura della fede.
Dobbiamo rinnovare la Chiesa intesa come casa comune se vogliamo parlare a un mondo che soffre di una crisi dovuta alla mancanza di casa. Stiamo consumando la nostra piccola casa planetaria. Ci sono più di 350 milioni di migranti in movimento, in fuga da guerre e violenze. Migliaia di persone muoiono attraversando i mari per provare a trovare una casa. Nessuno di noi può sentirsi completamente a casa se non lo sono loro. Anche nei Paesi ricchi, milioni di persone dormono per strada. I giovani spesso non possono permettersi una casa. Ovunque c’è una terribile mancanza di casa spirituale. L’individualismo spinto, la disgregazione della famiglia, le disuguaglianze sempre più profonde fanno sì che siamo afflitti da uno tsunami di solitudine. I suicidi sono in aumento perché senza una casa, fisica e spirituale, non si può vivere. Amare è tornare a casa da qualcuno.
Cosa ci insegna questa scena della Trasfigurazione riguardo alla nostra casa, sia nella Chiesa che nel nostro mondo diseredato? Gesù invita la sua cerchia più intima di amici a separarsi da lui e a godere di questo momento di intimità. Anche loro saranno con lui nel Getsemani. Questa è la cerchia più intima di coloro con cui Gesù si sente più a suo agio. Sul monte concede loro la visione della sua gloria. Pietro vuole aggrapparsi a questo momento. “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre dimore, una per te, una per Mosè e una per Elia”. È giunto e vuole che questo momento intimo duri.
Ma essi sentono la voce del Padre. “Ascoltatelo!”. Devono scendere dal monte e camminare verso Gerusalemme, senza sapere cosa li aspetta. Saranno dispersi e inviati ai confini della terra per essere testimoni della nostra dimora definitiva, il Regno. Vediamo quindi due concezioni di casa: la cerchia ristretta con Gesù sul monte e la chiamata alla nostra casa definitiva, il Regno, a cui tutti apparterremo.
Similmente, diverse concezioni della Chiesa come casa ci dividono oggi. Per alcuni questa è definita dalle sue antiche tradizioni e devozioni, dalle sue strutture e dal suo linguaggio ereditati, dalla Chiesa in cui siamo cresciuti e che amiamo. Essa ci dà una chiara identità cristiana. Per altri, la Chiesa attuale non sembra essere una casa sicura. Viene vissuta come esclusiva, emarginando molte persone, le donne, i divorziati e i risposati. Per alcuni è troppo occidentale, troppo eurocentrica. L’Instrumentum Laboris cita anche i gay e le persone che vivono in matrimoni poligami. Essi desiderano una Chiesa rinnovata in cui sentirsi pienamente a casa, riconosciuti, affermati e sicuri.
Da alcuni l’idea di un’accoglienza universale, in cui tutti siano accettati indipendentemente da chi siamo, è sentita come distruttiva dell’identità della Chiesa. Come in una canzone inglese del XIX secolo, “Se tutti sono qualcuno, allora nessuno è nessuno”[1]; essi credono che l’identità richieda dei confini. Per altri, invece, l’apertura è il cuore stesso dell’identità della Chiesa. Papa Francesco ha detto: “La Chiesa è chiamata ad essere la casa del Padre, con le porte sempre spalancate… dove c’è posto per tutti, per ognuno con i suoi problemi, per andare incontro a chi sente il bisogno di riprendere il proprio cammino di fede” [2].
Questa tensione è sempre stata al centro della nostra fede, fin da quando Abramo lasciò Ur. Nell’Antico Testamento ci sono due cose in perenne tensione tra loro: l’idea dell’elezione, del popolo eletto da Dio, del popolo con cui Dio dimora. Questa è un’identità che viene custodita. Ma ci sono anche l’universalismo, l’apertura a tutte le nazioni, un’identità ancora da scoprire.
L’identità cristiana è allo stesso tempo conosciuta e sconosciuta, data e da ricercare. San Giovanni dice: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3,1 -2). Sappiamo chi siamo e tuttavia non sappiamo chi saremo.
Per alcuni di noi, l’identità cristiana è soprattutto data, la Chiesa che conosciamo e amiamo. Per altri l’identità cristiana è sempre provvisoria, in cammino verso il Regno in cui cadranno tutti i muri. Entrambe sono necessarie! Se sottolineiamo solo che la nostra identità è data – questo è ciò che significa essere cattolici – rischiamo di diventare una setta. Se sottolineiamo solo l’avventura verso un’identità ancora da scoprire, rischiamo di diventare un vago movimento cristiano. Ma la Chiesa è segno e sacramento dell’unità di tutta l’umanità in Cristo (LG 1) nell’essere entrambe le cose. Dimoriamo sul monte e gustiamo la gloria ora. Ma camminiamo verso Gerusalemme, il primo sinodo della Chiesa.
Come vivere questa necessaria tensione? Tutta la teologia nasce dalla tensione che piega l’arco per scoccare la freccia. Questa tensione è al centro del Vangelo di San Giovanni. Dio fa la sua casa in noi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (14.23). Ma Gesù ci promette anche la nostra casa in Dio: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto” (Giovanni 14,2).
Quando pensiamo alla Chiesa come a una casa, alcuni di noi pensano soprattutto a Dio che viene a casa da noi, e altri a noi che andiamo a casa in Dio. Entrambe le cose sono vere. Dobbiamo entrare in sintonia con chi la pensa diversamente. Abbiamo a cuore la cerchia ristretta sul monte, ma scendiamo e camminiamo verso Gerusalemme, vagabondi e senza casa. “Ascoltatelo”.
Così, per prima cosa, Dio fa la sua casa con noi. Il Verbo si fa carne in un ebreo palestinese del primo secolo, cresciuto negli usi e costumi del suo popolo. Il Verbo si fa carne in ognuna delle nostre culture. Nei dipinti italiani dell’Annunciazione, vediamo belle case di marmo, con finestre aperte su ulivi e giardini di rose e gigli. I pittori olandesi e fiamminghi mostrano Maria con un forno caldo, ben avvolta per tenere lontano il freddo. Qualunque sia la vostra casa, Dio viene ad abitare in essa. Per trent’anni di silenzio, Dio ha abitato a Nazareth: un insignificante luogo secondario. Nataniele esclamò disgustato: “Può forse uscire qualcosa di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). Filippo risponde semplicemente: “Vieni e vedi”.
Tutte le nostre case sono Nazareth, dove Dio abita. San Charles de Foucauld ha detto: “Lasciate che Nazareth sia il vostro modello, in tutta la sua semplicità e aperturs… La vita di Nazareth può essere vissuta ovunque. Vivila dove è più utile per il tuo prossimo”[3].Ovunque siamo e qualunque cosa abbiamo fatto, Dio viene a trovarci: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
Facciamo quindi tesoro dei luoghi in cui abbiamo incontrato l’Emmanuele. “Dio con noi”. Amiamo le liturgie in cui abbiamo intravisto la bellezza divina, le chiese della nostra infanzia, le devozioni popolari. Io amo la grande abbazia benedettina della mia scuola, dove per la prima volta ho percepito le porte del cielo aperte. Ognuno di noi ha il proprio monte Tabor, sul quale ha intravisto la gloria. Ne abbiamo bisogno. Così, quando le liturgie vengono cambiate o le chiese demolite, le persone provano un grande dolore, come se la loro casa nella Chiesa venisse distrutta. Come Pietro, vogliamo restare.
Ogni Chiesa locale è una casa per Dio. Nostra Madre Maria è apparsa in Inghilterra a Walsingham, il grande santuario medievale, a Lourdes, a Guadalupe in Messico, a Czestochowa in Polonia, a La Vang in Vietnam e a Donglu in Cina. Non c’è una competizione mariana. In Inghilterra diciamo: “La buona notizia è che Dio ti ama. La cattiva notizia è che ama anche tutti gli altri”. Sant’Agostino diceva: “Dio ama ciascuno di noi come se ce ne fosse uno solo”[4] . Nella Basilica di Notre Dame d’Africa, ad Algeri, è inciso: “Priez pour nous et pour les Musulmans”, “Pregate per noi e per i musulmani”.
Spesso i sacerdoti trovano il cammino sinodale più difficile da abbracciare. Noi sacerdoti curiamo questi luoghi di culto e ne celebriamo le liturgie. I sacerdoti hanno bisogno di un forte senso di identità, di un esprit de corps. Ma chi saremo in questa Chiesa liberata dal clericalismo? Come può il clero abbracciare un’identità che non sia clericale? Questa è una grande sfida per una Chiesa rinnovata. Accogliamo senza paura una nuova comprensione fraterna del sacerdozio ministeriale! Forse possiamo scoprire come questa perdita di identità sia in realtà una parte intrinseca della nostra identità sacerdotale. È una vocazione che va al di là di ogni identità, perché “ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Giovanni 3,2).
Dio costruisce la sua casa ora in luoghi che il mondo disprezza. Il nostro fratello domenicano Frei Betto descrive come Dio sia diventato la sua casa in una prigione in Brasile. Alcuni domenicani furono imprigionati per la loro opposizione alla dittatura (1964-1985). Betto scrive: “Il giorno di Natale, festa del ritorno a casa di Dio, la gioia è incontenibile. La notte di Natale in prigione… Ora tutto il carcere canta, come se il nostro canto, felice e libero, dovesse risuonare in tutto il mondo. Le donne cantano nella loro sezione e noi applaudiamo… Tutti qui sanno che è Natale, che qualcuno sta rinascendo. E con il nostro canto testimoniamo che anche noi siamo rinati per lottare per un mondo senza lacrime, odio e oppressione. Fa un certo effetto vedere questi giovani volti schiacciati contro le sbarre e cantare il loro amore. Indimenticabile. Non è uno spettacolo per i nostri giudici, o per il pubblico ministero, o per la polizia che ci ha arrestato. Troverebbero intollerabile la bellezza di questa notte. I torturatori temono un sorriso, anche se debole”.
Così intravediamo la bellezza del Signore nel nostro monte Tabor, dove, come Pietro, vogliamo piantare le nostre tende. Bene! Ma “Ascoltatelo!”. Godiamo di quel momento e poi scendiamo dalla montagna e camminiamo verso Gerusalemme. Dobbiamo diventare in un certo senso dei senzatetto. “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. (Luca 9,58). Camminano verso Gerusalemme, la città santa dove risiede il nome di Dio. Ma lì Gesù muore fuori dalle mura per il bene di tutti coloro che vivono fuori dalle mura, come Dio si è rivelato al suo popolo nel deserto fuori dall’accampamento. James Alison scrisse: “Dio è in mezzo a noi come uno scacciato”[5]. “Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando la sua stessa umiliazione”. (Ebrei 12,12s).
L’arcivescovo Carlos Aspiroz da Costa scriveva alla Famiglia domenicana quando era Maestro: “Fuori dal campo, tra tutti quegli ‘altri’ relegati in un posto fuori dal campo, è dove incontriamo Dio. L’itineranza richiede di uscire dall’istituzione, dalle percezioni e dalle credenze culturalmente condizionate, perché è ‘fuori dal campo’ che incontriamo un Dio che non può essere controllato. È ‘fuori dal campo’ che incontriamo l’Altro che è diverso e scopriamo chi siamo e cosa dobbiamo fare”[6]. È uscendo fuori che raggiungiamo una casa in cui “non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3,26).
Negli anni ‘80, riflettendo sulla risposta della Chiesa all’Aids, visitai un ospedale di Londra. Il medico mi disse che c’era un giovane che chiedeva un sacerdote di nome Timothy. Per la provvidenza di Dio, riuscii a ungerlo poco prima che morisse. Chiese di essere sepolto nella Cattedrale di Westminster, il centro del cattolicesimo in Inghilterra. Era circondato dalla gente comune che veniva a quella Messa feriale, oltre che da malati di Aids, infermieri, medici e amici gay. Colui che era stato in periferia, per la sua malattia, per il suo orientamento sessuale e soprattutto perché era morto, era al centro. Era circondato da coloro per i quali la Chiesa era casa e da coloro che normalmente non sarebbero mai entrati in una chiesa.
La nostra vita si nutre di tradizioni e devozioni amate. Se si perdono, ci addoloriamo. Ma dobbiamo anche ricordare tutti coloro che non si sentono ancora a casa nella Chiesa: le donne che si sentono non riconosciute in un patriarcato di vecchi uomini bianchi come me! Persone che sentono che la Chiesa è troppo occidentale, troppo latina, troppo coloniale. Dobbiamo camminare verso una Chiesa in cui non siano più ai margini ma al centro.
Quando Thomas Merton divenne cattolico scoprì “Dio, quel centro Che è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte, mentre trova me”. Rinnovare la Chiesa, quindi, è come fare il pane. Si raccolgono i bordi dell’impasto al centro e si allarga il centro ai margini, riempiendo il tutto di ossigeno. Si fa la pagnotta rovesciando la distinzione tra i bordi e il centro, facendo la pagnotta di Dio, il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte, trovandoci.
Un’ultima brevissima parola. Più volte, durante la preparazione di questo Sinodo, è stata posta la domanda: “Ma come possiamo essere a casa nella Chiesa con l’orribile scandalo degli abusi sessuali?”. Per molti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Hanno fatto le valigie e se ne sono andati. Ho posto questa domanda a una riunione di presidi cattolici in Australia, dove la Chiesa è stata orribilmente sfigurata da questo scandalo. Come hanno fatto a rimanere? Come hanno potuto essere ancora a casa?
Uno di loro ha citato Carlo Carretto (1910-1988), un Piccolo fratello di Charles de Foucauld. Le parole di Carretto riassumono l’ambiguità della Chiesa, mia casa ma non ancora casa mia, che rivela e nasconde Dio.
“Quanto devo criticarti, mia Chiesa, eppure quanto ti amo! Mi hai fatto soffrire più di chiunque altro, eppure devo a te più che a chiunque altro. Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai scandalizzato molto, eppure solo tu mi hai fatto capire la tua santità. … Innumerevoli volte ho avuto voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima eppure, ogni notte, ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure! No, non posso liberarmi di te, perché sono un tutt’uno con te, anche se non completamente. E poi, dove andrei? A costruire un’altra chiesa? Ma non potrei costruirne una senza gli stessi difetti, perché sono i miei difetti”.
Alla fine del Vangelo di Matteo, Gesù dice: “Ecco io sono con voi fino alla fine dei tempi”. Se il Signore rimane, come potremmo andarcene? Dio si è messo a casa nostra, con tutti i nostri scandalosi limiti, per sempre. Dio rimane nella nostra Chiesa, anche con tutta la corruzione e gli abusi. Dobbiamo quindi rimanere. Ma Dio è con noi per condurci negli spazi più ampi del Regno. Abbiamo bisogno della Chiesa, della nostra casa attuale con tutte le sue debolezze, ma anche di respirare l’ossigeno pieno di Spirito della nostra futura casa senza confini.
[1] W. S. Gilbert, The Gondoliers, 1889
[2] Evangelii Gaudium paragrafo 47.
[3] Cathy Wright LSJ St Charles de Foucauld: His Life and Spirituality, p.111
[4] Confessions. Book 3
[5] Knowing Jesus p.71
[6] Letter to the Order on Itinerancy
[1] W. S. Gilbert, The Gondoliers [I Gondolieri], 1889
[2] Evangelii Gaudium par. 47.
[3] Cathy Wright LSJ, St Charles de Foucauld: His Life and Spirituality [San Charles de Foucauld: La sua vita e la sua spiritualità], p. 111
[4] Confessioni. Libro 3
[5] Knowing Jesus [Conoscere Gesù] p.71
[6] Letter to the Order on Itinerancy [Lettera all’Ordine sull’itineranza]