45° anniversario della Strage di Bologna: omelia del Card. Zuppi durante la Santa Messa di suffragio
L’omelia del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, pronunciata il 2 agosto in occasione della Santa Messa in suffragio delle vittime della strage della Stazione di Bologna, dell’Italicus e del Rapido 904.
La memoria legata a sofferenze ha sempre una conseguenza atroce, perché ricordare significa riaprire la ferita. Per questo è sempre importante la vicinanza del Signore, che fa sue le nostre ferite perché siamo sempre accompagnati dal suo amore che consola e guarisce. È importante riparare le ferite con la giustizia e il dialogo, perché diventino fonte di luce e sconfiggano il buio. La fede ci dona di vivere proprio questo: la croce diventa speranza, il buco dei chiodi si trasforma in segno di vita e di amore più forte del male e della morte. Cosa avviene, invece, quando la memoria non è riparata e resta fonte di divisione, inquina con l’odio, condiziona le relazioni, impedisce la fraternità? La nostra generazione vive la tentazione di cancellare il male, illudendosi di stare bene rimuovendo il limite e la fragilità, scegliendo di non pensare, di fare finta, pensando che non vedere sia una soluzione, credendo di avere la risposta per tutto. La fragilità, il limite, la sofferenza rappresentano un oltraggio inaccettabile per una vita di benessere, che si giudica fallita quando non raggiunge lo standard, come se fosse priva di senso e bellezza!
La memoria del 2 agosto ci aiuta a sentirci comunità e a non scappare, a non fare finta, a confrontarci con il male ma anche a scegliere di combatterlo. Ci mettiamo assieme di fronte alle terribili conseguenze volute da ignobili forze del male, conseguenza della trama di morte che, vigliaccamente, venne ideata e realizzata da calcoli di potere e di ideologia. Purtroppo, di questi colpevoli ne conosciamo solo una parte. Insieme ai familiari delle vittime, ai sopravvissuti – ma siamo tutti, come abbiamo detto, familiari e sopravvissuti – facciamo memoria e già questo ci fa vivere in maniera più consapevole e responsabile. Non dimentichiamo l’orrore di quei momenti. “Il cielo sembrava il colore del muro. Ricordo polvere, sangue e nero. Mi sembrava di essere in un mondo irreale. Persone ferite vagavano tra le macerie nel piazzale, vagavano e urlavano nomi, i nomi di quelli che prima erano accanto a loro e ora non c’erano più”. Come ci ha detto la mamma di un ostaggio di Hamas: “non c’è classifica nel dolore e non voglio che il mio dolore causi altro dolore”. Questa memoria da sempre ha aiutato anche a ricordare le tante stragi che hanno insanguinato il nostro Paese.
Questo anno ricordiamo in particolare quella dell’ITALICUS, cinquanta anni or sono, treno saltato in aria la notte del 4 agosto 1974. Racconta Paolo Vandelli, che allora aveva 17 anni: “Era l’1.23, ero a letto. Sentii un boato fortissimo. Con mio padre, agente Polder, ci precipitammo in stazione per capire cosa fosse successo. Mi trovai di fronte il treno ancora in fiamme. Dietro i finestrini c’erano mani che si agitavano, che chiedevano aiuto. Una scena terribile, ce l’ho ancora davanti agli occhi: prendemmo gli estintori e iniziammo a spegnere il rogo”. Al mattino si contarono 12 vittime. Tra loro anche il piccolo Marco Russo, malato di leucemia: con la famiglia tornava da un viaggio a Firenze. I genitori, morti con lui, lo portavano in giro per l’Italia nella speranza di distrarlo dalla malattia. A dicembre saranno quaranta anni della strage del Rapido 904, avvenuta il 23 dicembre 1984. “I ricordi sono come lame: rivoltarli nella piaga fa ancora malissimo”. Non dimentichiamo, perché vogliamo onorare i nostri morti e cercare la giustizia. La preghiera ci aiuta a non abituarci mai al male, a saperlo riconoscere, a cercare la giustizia che è indispensabile per curare la memoria e per proteggerci da questo. Non smettiamo di scandalizzarci delle inaccettabili difficoltà a giungere a una giustizia piena. Questa non potrà certo restituire la vita dei nostri cari, ma ne onora il ricordo, permette la memoria, rende più consapevole la solidarietà. Passano gli anni e la memoria ci fa rivivere lo sgomento, l’orrore, il pianto, la rabbia, certo, ma anche tanta solidarietà instancabile e generosa. E se gli autori fascisti della strage volevano terrorizzare per dividere e imporre il loro ordine, con complicità inquietanti e purtroppo ancora non chiarite, la reazione di allora e di oggi è quella che permette di affrontare il male: la solidarietà. È il senso di bene comune che non fa arrendere all’ingiustizia, alle forze occulte di poteri occulti, anticristiani perché contro la persona. Nel recente incontro di Trieste per la Settimana Sociale Papa Francesco ha richiamato tutti a partecipare, non a parteggiare. “Ogni persona ha un valore; ogni persona è importante. La democrazia richiede sempre il passaggio dal parteggiare al partecipare, dal ‘fare il tifo’ al dialogare”. Lo capiamo ancora di più consapevoli di tanto enorme dolore. Se cresce la giustizia può fiorire luce dalle ferite. E anche per questo non ci stanchiamo di chiedere e vivere la giustizia, anche se per ottenerla ci vuole tanta insistenza e tenacia.
La parola di Dio ci aiuta a comprendere il mistero del male. Vediamo le conseguenze di Caino, la sua violenza terribile, l’iniquità umana che non smette di sorprenderci, di sfidarci, di chiederci di combatterla con l’unica arma possibile a tutti e capace di vincerla: l’amore. Caino vive la differenza come confronto, la scelta libera di Dio come esclusione, pensa l’altro come concorrente e quindi nemico. Non chiama Abele come fratello. Tutti dobbiamo imparare a chiamare l’altro, il prossimo qualunque esso sia nostro fratello e sorella. Dio, ricorda il Pastore Ricca, non parla mai di Abele senza precisare a Caino che si tratta di “tuo fratello”. Per Caino, però, Abele rappresenta una limitazione e non un’estensione di sé. Caino non riesce a parlare al fratello, e questa è sempre la premessa della violenza. Secondo alcuni non a caso Caino deriva dal verbo ebraico qanah, che significa possedere e quando l’amore è possesso e cerca possedere l’altro è sempre violento. E questo è vero nelle relazioni tra noi così come tra Paesi. Possiamo dire che la colpa è di Dio che preferisce Abele. Dio ama, e l’amore è sempre personale. Dio esprime la sua preferenza: i piccoli ai sapienti, i peccatori ai giusti, gli umili ai presuntuosi, i poveri ai ricchi. Il Padre preferisce il figlio che è tornato al maggiore che non si era mai mosso da casa. E questo irrita il maggiore, arrabbiato per l’invidia causata dalla festa e del tutto disinteressato al fratello e alla scelta del padre di una casa di piena fraternità, dove ciò che è mio è tuo. Tutto, capretto, vitello. E invece quanta violenza e estraneità per possedere sentendosi esclusi o per dire “mio” perché non si sa dire “nostro”. Il Signore non lascia Caino senza parole. Non resta a guardare per poi giudicarlo male. Gli chiede di agire per recuperare lo sguardo di sempre, per tornare a guardare Abele negli occhi, non dall’alto in basso o viceversa. Agire bene, cosa significa? Il bene è l’amore.
L’invito è a liberarsi dall’irritazione, a non farsi dominare dal peccato che “è accovacciato alla tua porta” e suggerisce di vivere per sé stessi, di possedere. Ogni violenza, ogni guerra è in realtà sempre un fratricidio. Ogni guerra è sempre una “strage” inutile, che può colpire tutti, che non guarda in realtà in faccia nessuno. Il bene è liberare l’io dall’egoismo che annulla la fraternità, pensarsi in relazione all’altro per la quale, al contrario, quello che è mio è tuo e viceversa. Il bene è riscostruire la fraternità, tra le persone, così come tra i Paesi, tra le nazioni, perché questo ci rende più forti del divisore. L’avvertimento di Dio a Caino è sempre valido per tutti noi: verso di te è il suo istinto. Tu lo dominerai, che significa anche che puoi dominarlo. E possiamo farlo, con la giustizia, rendendo la fraternità legami, costruendo realtà che uniscono anche i paesi, sovranità comuni. Dio non smette di chiederci: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. In tanti modi noi rispondiamo, quasi risentiti, azzittendo la voce di Dio che è anche quella della coscienza più vera. Tu sei il custode di tuo fratello. Cosa hai fatto? Come abbiamo permesso che avvenisse questo? Noi siamo custodi di qualcuno che è sempre nostro fratello, non un estraneo, un nemico. Il sangue di ogni Abele è una voce, parla, implora. Dio ascolta quella voce. Gli uomini troppe volte no, pensando di non essere custodi. Gesù è venuto nel mondo, per aiutarci a scegliere l’amore e iniziando Lui a mettere in pratica il comandamento dell’amore, che non è un’ingenuità ma l’unica via della salvezza. Anche tra le nazioni. Gesù non fa una lezione, ma ci ama perché possiamo farlo anche noi come lui ha amato noi. “L’essere umano è relazione: io sono me stesso solo nel tu e attraverso il tu, nella relazione dell’amore con il Tu di Dio e il tu degli altri”, ripeteva Papa Benedetto. Il peccato distrugge la relazione con Dio e con il prossimo. L’amore lo ricostruisce.
Signore, il sangue delle vittime è quello di Abele e grida a Te. Di fronte alla sconvolgente banalità del male e alle terribili forze oscure, insegnaci a cercare sempre la giustizia e a mettere in pratica il tuo comandamento dell’amore, a fare agli altri ciò che vogliamo sia fatto a noi, a ricostruire la fraternità tra noi e tra i Paesi, perché viviamo, fratelli tutti, nella casa comune che ci hai affidato. Amen.