Consiglio Permanente CEI. Card. Zuppi: "la pace è quello di cui l’umanità ha più bisogno oggi"
Di seguito il testo dell'introduzione del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, durante la sessione invernale del Consiglio Permanente
La domanda a Samuele
Negli ultimi giorni la Liturgia della Parola nella Celebrazione Eucaristica ci ha proposto il personaggio di Samuele. Prima che Davide entri in scena e ne diventi protagonista, c’è un dettaglio che ha attirato la mia attenzione. Quando Samuele arriva a Betlemme su incarico di Dio per ungere il figlio di Iesse, gli anziani della città che gli vanno incontro gli chiedono: «È pacifica la tua venuta?» (1Sam 16,4). La domanda potrebbe essere così riformulata: «Sei venuto a portare la pace o la guerra?». Perché questa domanda? Forse perché, qualche pagina prima, la figura di Samuele era associata alla guerra. La gente di Betlemme, quindi, adesso pensa che la sua presenza, in un modo o in un altro, sia un preludio di sciagura. Noi sappiamo che le cose non stanno affatto così. Il mandato di Dio al profeta è di designare Davide. Ma la percezione della gente è diversa. Mi sono chiesto: «Chi siamo noi per la nostra gente?»; «Cosa si aspettano da noi?»; «Cosa possiamo fare noi per loro, come credenti e come pastori?».
Operatori di pace
La pace è quello di cui l’umanità ha più bisogno oggi. Più volte abbiamo parlato di questo tempo di guerra. Ma dobbiamo farlo, perché è la realtà di oggi e proietta la sua ombra sinistra su tutti. Guardando al contesto internazionale, non possiamo non esprimere forte preoccupazione per l’escalation di odio e violenza che, in Ucraina, in Medio Oriente e in moltissime altre parti del mondo, sta seminando morte e distruzione. Il rumore delle armi continua ad assordarci; il male della guerra si allarga; la società è come assuefatta al dolore e chi parla di pace è come se gridasse nel deserto. Questo vuol dire che dobbiamo rassegnarci? Mai! Come diceva don Primo Mazzolari, «ognuno di noi è un cielo che può dar pioggia o sereno, preparare la guerra o confermare la pace: ognuno di noi è guardiano degli argini della pace». La costruzione della pace è certamente un dovere dei “grandi” della Terra, ma chiama in causa ciascuno di noi. Ognuno deve essere operatore di pace, artigiano di pace. Dobbiamo trasformare la sofferenza causata dalla guerra nella nostra sofferenza. Chiedere la pace vuol dire fare nostre le lacrime di tutti i fratelli e le sorelle che soffrono e che vengono privati del loro futuro; vuol dire coinvolgersi personalmente perché solo da cuori pacificati può sgorgare il desiderio di pace; vuol dire – come ha chiesto il Papa all’Angelus di domenica 21 gennaio – sentire «la responsabilità di pregare e di costruire la pace» per i bambini, per i più piccoli, per i più deboli. L’ansia della pace è un grido che diventa preghiera. Non dobbiamo stancarci di invocare il dono della pace, di educarci alla pace, a partire dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dalle nostre comunità. Le nostre Chiese devono abolire il linguaggio della discordia e della divisione, devono avere parole di pace, chiamando i fedeli a nutrire pensieri e sentimenti di pace. In quest’ottica, l’iniziativa dell’accoglienza dei bambini ucraini, che si sta realizzando grazie alla Caritas italiana, può offrire una parola di pace concreta: può essere un’esperienza davvero evangelica perché rende possibile a tutti la solidarietà, genera legami di fraternità e si prende cura degli ultimi, di chi è piccolo e soffre per la guerra senza nemmeno sapere il perché.
Primato, collegialità, sinodalità
Non lasciamo solo il Santo Padre nel ministero di pace. La sua profezia è un valore unico per l’umanità. E, ancora di più, non possiamo e non vogliamo lasciarlo solo noi, Vescovi italiani, che abbiamo con lui un rapporto non solo di prossimità geografica, ma di speciale vicinanza storica e spirituale. Il Papa e la Chiesa di Roma hanno sempre segnato in profondità il cristianesimo italiano. Tanto che l’art. 4, § 2 dello Statuto della nostra Conferenza ricorda «il particolare legame che unisce la Chiesa in Italia al Papa, Vescovo di Roma e Primate d’Italia…». Questo «qualifica in maniera peculiare la comunione della Conferenza con il Romano Pontefice».
Con questo spirito e consci del rapporto privilegiato che lega le nostre Chiese con il Papa, stiamo vivendo da oggi la visita ad limina: un momento che rende ancora più manifesta la collegialità quale dimensione necessaria e insostituibile per la Chiesa sinodale. Anche le Conferenze Episcopali, nelle quali ci è dato di vivere la comunione tra noi Vescovi e la missione in seno ad un medesimo territorio, si inseriscono in questo movimento sinodale. Il nostro venire a Roma è, pertanto, un’opportunità per portare ad limina Petri la ricchezza, la bellezza, ma anche le fatiche dei nostri vissuti ecclesiali e del nostro camminare insieme. Allo stesso tempo, incontriamo il Vescovo di Roma per condividere con lui le sfide odierne per l’annuncio del Vangelo, accogliendo come consegna la sua parola per tutte le nostre Chiese. E tutto questo in uno stile di grande franchezza, requisito essenziale per una Chiesa che voglia essere tutta sinodale.
Battezzati: fratelli e sorelle nel Signore
In questa prospettiva, tra le sfide dell’annuncio, abbiamo accolto la Dichiarazione del dicastero della Dottrina della Fede, Fiducia supplicans. Un documento che si pone nell’orizzonte della misericordia, dello sguardo amorevole della Chiesa su tutti i figli di Dio, senza tuttavia derogare dagli insegnamenti del Magistero. Come viene chiarito nella Presentazione, infatti, non vi è alcuna messa in discussione del significato del Sacramento del matrimonio: «Resta ferma sulla dottrina tradizionale della Chiesa circa il matrimonio, non ammettendo nessun tipo di rito liturgico o benedizioni simili a un rito liturgico che possano creare confusione».
Il card. Betori, in tal senso, ha ben chiarito l’assunto in un intervento su “Avvenire”: «Non si tratta di un ampliamento del concetto di matrimonio ma di un’applicazione concreta della convinzione di fede che l’amore di Dio non ha confini e proprio il suo operare è alla base del superamento delle situazioni difficili in cui versa l’uomo. Le benedizioni… sono “una risorsa pastorale piuttosto che un rischio o un problema”, un gesto che “non pretende di sancire né di legittimare nulla”, in cui “le persone possono sperimentare la vicinanza del Padre”». E ancora: «Pensare in questi termini la verità e il suo annuncio non toglie nulla alla sua integrità, ma rende consapevoli dello stretto nesso tra volontà salvifica di Dio e condizione storica dell’uomo». È il valore pastorale della verità cristiana, che è sempre finalizzata alla salvezza. Dio vuole che tutti siano salvi (1Ts 2,4): è quindi compito della Chiesa interessarsi di tutti e di ciascuno. Non possiamo dimenticare che tutti i battezzati godono della piena dignità dei “figli di Dio” e, come tali, sono nostri fratelli e nostre sorelle.
Frammentazione internazionale e coesione europea
Convinti del significato ecclesiologico e spirituale dell’unità con il Papa, nostro Primate, ne vediamo la necessità in un tempo di frammentazione della comunità internazionale, di nazionalismi ed etnicismi. Siamo in un tempo in cui le organizzazioni sovranazionali faticano a essere punti di riferimento su scala globale, come purtroppo accade per le Nazioni Unite. La stessa Unione Europea necessita di maggiore coesione e capacità di azione in relazione ai conflitti in corso e alla promozione della pace e rispetto ad altri delicati scenari, tra cui le dinamiche demografiche, il cambiamento climatico, la tutela dei diritti fondamentali, la giustizia sociale di fronte alle diffuse povertà, la cooperazione internazionale.
La coesione tra Paesi europei, in questo mondo dinamico e complesso, è un dono per i singoli popoli: il processo verso un’Europa “unita nella diversità” richiede però che le sue fonti ideali e spirituali siano costantemente richiamate, e semmai rinnovate, così da costituire un punto di riferimento per l’attività politica.
L’unità delle genti – lo ricordiamo – è una profezia che scaturisce dal seno della Chiesa. Bisogna, dunque, coltivare l’anima dell’Europa e rifarsi ai suoi fondamenti storici e valoriali, richiamandoli anche in vista dell’imminente rinnovo del Parlamento europeo. Sono temi appena accennati, ma che meritano ulteriore attenzione e impegno.
Portatori di speranza
Samuele è stato per il popolo d’Israele una figura fondamentale, perché ha segnato la transizione da un regime politico ad un altro. Il Signore ha fatto di lui uno strumento di novità non solo religiosa, ma anche sociale e civile. La fede ci chiede di interessarci della vita delle persone. Se guardiamo alla nostra gente, la pace di cui ho parlato sinora diventa sinonimo di speranza. La domanda dei betlemiti a Samuele è come quella che ci rivolge tanta gente: «Ci sono ancora motivi per sperare per il futuro?»; «Puoi darci ragioni per guardare con fiducia al domani nostro e dei nostri figli?».
La nostra speranza
Spesso la speranza sembra offuscarsi. Magari è solo una sensazione. Forse un clima dovuto alle conseguenze del Covid, che ha toccato in profondità persone e rapporti. Questo, però, induce allo spaesamento di tante persone. Il Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese (2023) parla degli italiani come «sonnambuli»: «Il portato antropologico della difficile transizione dalla grammatica trasparente di un mondo che presentava problemi risolvibili con competenza, impegno raziocinio, a un mondo reso opaco dall’incertezza». Spaesamento, muoversi da sonnambuli in un mondo opaco, dove non si vede il futuro. Questo avviene un po’ anche nella Chiesa: un senso di declino, evidenziato da tanti indicatori negativi: i numeri decrescenti di vocazioni e praticanti, il diminuito rilievo della Chiesa. Il senso del declino si diffonde tra sacerdoti, cristiani, mentre una Chiesa troppo preoccupata, se non rassegnata, diventa poco attrattiva, soprattutto per i giovani.
Ma non partiamo solo da questo! Il primum, in una prospettiva cristiana della storia, è la vocazione ad essere Chiesa in Italia: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia…» (Mt 6,33), dice Gesù.
Siamo nell’anno preparatorio al Giubileo. Scrive Papa Francesco per il 2025: «Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Il prossimo Giubileo potrà favorire molto la ricomposizione di un clima di speranza e di fiducia, come segno di una rinnovata rinascita di cui tutti sentiamo l’urgenza. Per questo ho scelto il motto Pellegrini di speranza».
Oggi la Chiesa è chiamata a essere sé stessa con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante: chiamata dal Signore, dalla sete di senso e di fede di tanti, dal disorientamento di molti, dal bisogno dei poveri, dalla solitudine orgogliosa e disperata di parecchi, dalle inquietudini. Non è solo il tempo della secolarizzazione, ma è anche il tempo della Chiesa! È il tempo della Chiesa, della sua forza di relazione, di gratuità. Non del declino, ma della vocazione a essere Chiesa di Dio! La Chiesa, con i suoi limiti, è un grande dono per noi e per l’umanità degli italiani. Lo vediamo: è una realtà che chiama alla speranza. Il Giubileo coinvolgerà i nostri popoli nel cammino di pellegrini della speranza.
Tempo di crisi?
Non facciamoci intimidire da letture solo sociologiche della Chiesa! Ben altre sono le letture della realtà e del mistero della Chiesa! Non facciamoci intimidire da una cultura per cui la fede è al tramonto! È la prepotenza del pessimismo, che pare realismo. Il pessimismo diventa una specie di sicurezza e motiva la pigrizia e l’abitudine. Non facciamoci intimidire da letture della Chiesa che interpretano la nostra azione come politica. Siamo aperti al dialogo, ma non ci lasceremo dire da altri quale sia il contenuto dell’azione caritativa o della missione, che non sono mai di parte, perché l’unica parte della Chiesa è Cristo e la difesa della persona, della vita, dall’inizio alla fine. Certe letture vogliono dividere Vescovi e cristiani, mentre invece sento tanto viva la comunione tra Vescovi e popolo e questo vale più dei like dei social.
Ci sono stati anni difficili anche in passato per le Chiese in Italia. Dopo il Vaticano II, quando la comunità pareva spezzarsi nella contrapposizione tra gruppi, Vescovi e contestazione, la Chiesa praticò con fiducia una comunione inclusiva nell’ascolto mutuo. Iniziò il card. Poletti, Vicario di Roma, grande pastore, con un convegno sulle attese di carità e giustizia a Roma, chiamando in assemblea i romani nel febbraio 1974, proprio cinquant’anni fa. Fu un grande concorso di popolo. Il Vicario pose i cristiani di fronte alla povertà di Roma. Un gesto di sapienza pastorale e un messaggio: invece di dividervi e ignorarvi, parlate (e si tennero affollate assemblee di fedeli in cui tutti potevano prendere la parola), ma soprattutto ascoltate il grido dei poveri e delle periferie! Ci si preparava al Giubileo del 1975, che molti sconsigliavano di indire, considerandolo trionfalistico, ma che Paolo VI volle e fu un grande evento di fede.
Furono i primordi di un coraggioso metodo sinodale, seguito poi nel Convegno nazionale del 1976, il primo, “Evangelizzazione e Promozione Umana”, preparato da un documento curato dal segretario CEI, il Servo di Dio Enrico Bartoletti, che enunciava la forte affermazione: «Non sembra, perciò, eccessivo dire che l’Italia è un Paese da evangelizzare». Tale visione ha ispirato anni di programmi, azioni, scelte pastorali, nonostante il senso di crisi e di sconcerto di allora. Ricordo quei momenti difficili, che ho vissuto un poco quand’ero giovane e, oggi, comprendo come illuminati Pastori, a partire da San Paolo VI, non ebbero timore di predicare il Vangelo, di far parlare, di ascoltare, di convocare, consapevoli di essere un unico popolo di Dio, che aveva e ha una missione in Italia. Quei Vescovi ebbero coraggio, perché, in quegli anni, si scriveva che il cristianesimo stava per finire. Nello smarrimento, c’era contrapposizione di ricette per il futuro e forte incomunicabilità. Quei Vescovi, la cui memoria è benedizione, ebbero fiducia nello Spirito che anima, raccoglie, ispira la Chiesa.
Pastori, in comunione con il Papa, sentirono di dover camminare avanti nella comunione, convinti della missione delle Chiese in Italia e della Chiesa italiana nel mondo. Ascoltarono e vollero che i cristiani parlassero. Progressivamente, con San Giovanni Paolo II, il popolo cristiano sentì che c’era futuro per la missione della Chiesa. Non dimentichiamo la storia! Siamo in un tempo in cui si cancellano passato e tradizione, quasi quanto è avvenuto prima di noi sia sbagliato o irrilevante; invece la storia, di cui siamo eredi, ci conforta.
Forza nella debolezza
Le crisi presentano una Chiesa infragilita. Non ci spaventino fragilità e piccolezza! Non sono solo indici problematici, ma anche la quotidiana realtà in cui la Chiesa da sempre vive. Il profeta Samuele, ascoltando il Signore, va alla ricerca di chi è destinato alla missione regale nella famiglia di Iesse: incontra ben sette suoi figli. Nessuno è il prescelto. «Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura: io l’ho scartato perché non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda all’apparenza, il Signore guarda al cuore» (1 Sam 16,7), disse il Signore sui candidati migliori. Restava Davide, piccolo, improponibile tanto che l’avevano lasciato con le greggi in campagna: «Alzati e ungilo: è lui!», dice il Signore a Samuele (ivi, 13). Era piccolo, ma con begli occhi e di gentile aspetto. Giovanni Crisostomo riflette su Davide, sulla sua piccolezza e bellezza, in rapporto a re Saul, aggressivo e potente. Davide non considera Saul un nemico, eppure lo è. Crisostomo esalta Davide: la sua forza è la mitezza e la benignità. Scrive, parlando di Davide come modello di mitezza: «Nulla è più potente della benignità». Il genio di Davide è, per Crisostomo, cercare di aver la meglio sulla crudeltà del nemico con mitezza e benignità.
Davide, fragile, diventa l’uomo della parola e della benignità, il cantore e l’uomo della preghiera. Così lo vede Crisostomo. La debolezza di Davide è un approccio, diverso da quello comune, forte e arrogante, tipico di Saul. Del resto, l’apostolo Paolo, in una stagione di grande vitalità missionaria e passione evangelizzatrice, afferma: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,9). La debolezza è la nostra forza, ma dobbiamo usarla con intelligenza e libertà. Partire dalla debolezza, partire da Colui che è stato crocifisso, fa sì che la carità, la mitezza, la benignità siano la cifra delle nostre relazioni e delle nostre azioni, in una società in cui invece la cifra dei rapporti è l’interesse o si esprime nella conflittualità.
Papa Benedetto XVI l’ha insegnato nell’enciclica Deus Caritas est: «Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio». Con la carità, «la forza del cristianesimo – aggiunge il Papa – si espande ben oltre le frontiere della fede cristiana». Nonostante le letture pessimistiche o politiche sulla Chiesa, ben oltre le frontiere del popolo di Dio ci si accorge della forza della carità, della limpidezza attrattiva della predicazione del Vangelo, che è comunicare Gesù, della preghiera rasserenante pure in momenti dolorosi, della disponibilità dei cristiani e dei sacerdoti a tutti senza preclusione. Questa è una realtà viva nella società italiana. Questa visione ci sostiene di fronte ai problemi quotidiani, che non possono essere il nostro orizzonte. Il nostro non è un pessimismo di una vecchia istituzione, ma il sentimento di Nicodemo, che comprende dalla parola di Gesù che vuol dire rinascere dall’alto.
La questione sociale è sempre anche una questione morale e – oserei dire – spirituale. Nella nostra società si assiste a una divaricazione sempre più ampia tra chi è povero e chi è benestante, le disuguaglianze sono aumentate e c’è come una cronicizzazione della povertà. Lo si nota dall’accesso ai beni fondamentali come il cibo, i servizi sanitari e le medicine, l’istruzione soprattutto quella superiore. Il malessere dei poveri, che crea sacche di pericolosa depressione, deriva anche dalla consapevolezza che non c’è più un ascensore sociale che consenta di sognare un miglioramento. Consentire a tutti pari opportunità significa anche operare per eliminare la disuguaglianza di genere: non è ammissibile che le donne mediamente guadagnino meno degli uomini per le medesime mansioni. In generale, esiste nel nostro Paese un problema di riconoscimento della dignità delle persone e del loro lavoro, mal retribuito a causa di contratti precari e di lavoratori sfruttati. Se vogliamo essere profeti di speranza nella nostra terra dobbiamo assumere il peso delle sofferenze degli ultimi, aiutando, nel vicendevole rispetto dei ruoli ma anche nella necessaria collaborazione, anche chi governa a riconoscere le priorità nelle decisioni che riguardano il bene di tutti.
A sostegno dell’educazione scolastica
Della vicenda di Samuele riprendo ancora un’ultima immagine. Quella di lui ancora giovinetto, che vive presso il santuario di Silo dove riceve un’istruzione religiosa e sicuramente anche umana dal sacerdote Eli. Il Primo libro di Samuele dà ampio rilievo a questo tempo di formazione, che si conclude con questa affermazione: «Samuele crebbe e il Signore fu con lui» (1Sam 3,19). Non credo che sottolineeremo mai abbastanza l’importanza di una formazione integrale della persona, sin dalla più tenera età, che tenga conto della storia della nostra cultura segnata dal fattore religioso e apra la mente e il cuore al trascendente. È in questo quadro di riferimento che saluto con piacere la firma lo scorso 9 gennaio dell’accordo tra CEI e Ministero dell’Istruzione e del Merito per il prossimo concorso degli Insegnanti di Religione Cattolica. Questi insegnanti – la stragrande maggioranza dei quali sono laici – comunicano a scuola i valori dell’Umanesimo cristiano. Sono i formatori delle prossime generazioni. A loro il compito ecclesiale e civile di educare alla pace, di educare alla legalità, di educare alla cultura, mostrando come il Cristianesimo ha contribuito a fondare i valori di libertà e rispetto dell’altro, che sono alla base della nostra società. L’attenzione verso le nuove generazioni è un tema cruciale per il futuro della Chiesa e della società. I giovani sono il presente delle nostre comunità. È un tema al centro del Cammino sinodale su cui avremo modo di tornare in futuro.
Conclusione
Ho voluto aprire questa nostra riunione con alcune riflessioni, perché credo che dallo scambio di opinioni, sentimenti ed esperienze può maturare una visione più aperta alla speranza della nostra realtà. Non ho da insegnare, ma credo che il comune discorso debba partire da un punto, sicuramente per superarlo. Lo scambio è un anello della struttura di comunione della CEI, che andrà rivisitato nel decisivo Cammino sinodale, per un suo migliore funzionamento che consideri anche lo snodo decisivo delle Conferenze regionali e delle Commissioni episcopali.
Di fronte al popolo italiano, alle istituzioni locali o nazionali, alle componenti della vita culturale, sociale e politica, la Chiesa si presenta qual è, senza alterigia, ma consapevole di avere una missione unica. Faccio mie le parole di un sacerdote romano, don Andrea Santoro, ucciso mentre pregava a Trebisonda, in Turchia, nel 2006: «La via più alta della superiorità è quella dell’amore e della giustizia che si china sul diritto e sul bisogno dell’altro, che non si lascia vincere dal male, ma vince il male con il bene, che si apre al perdono perché non vuole giudicare ma salvare, che non ha altro motivo di vanto se non nella gioia e nella vita dell’altro».