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Consiglio Permanente CEI: l'introduzione del Cardinale Presidente Matteo Zuppi

Inizia oggi a Roma il Consiglio Permanente della CEI. Tra i temi la prima Assemblea sinodale, la presentazione della bozza di schema del documento sull’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc) e l'approvazione dei messaggi per la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei (17 gennaio 2025) e per la 47ª Giornata per la Vita. Di seguito la prolusione del Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI.

Cari Fratelli, 

ci ritroviamo all’inizio del nuovo anno pastorale per continuare, con spirito di sinodalità e  collegialità, quell’opera di discernimento e di indirizzo che è affidata al nostro Consiglio  Permanente. Lo facciamo confortati dalla compagnia di Maria, che ha vissuto la sua fede in  cammino (LG, 58) e ha accolto il dono del Figlio. Le affidiamo queste giornate, affinché lo Spirito  Santo illumini e renda fecondo il nostro lavoro. 
Salutiamo con gioia S.E.R. Mons. Luigi Renna, Arcivescovo di Catania e Presidente della  Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, che partecipa in  videocollegamento, perché ancora in convalescenza dopo l’intervento al cuore subito nello scorso  mese di agosto. Caro Luigi, ci siamo presi un bello spavento e siamo davvero contenti di vederti con  noi: ti rinnoviamo i nostri auguri e la nostra vicinanza. 
Accogliamo con fraternità i tre nuovi presidenti di Conferenze Episcopali Regionali: per la Toscana,  S.Em. Card. Paolo Lojudice (Arcivescovo di Siena - Colle di Val d’Elsa – Montalcino e Vescovo di  Montepulciano - Chiusi - Pienza); per la Basilicata, S.E.R. Mons. Davide Carbonaro, OMD  (Arcivescovo di Potenza - Muro Lucano - Marsico Nuovo); per l’Abruzzo-Molise, S.E.R. Mons. Camillo  Cibotti (Vescovo di Isernia - Venafro). Rivolgiamo un pensiero di gratitudine ai Confratelli che li  hanno preceduti in questo servizio: S.Em. Card. Giuseppe Petrocchi (Abruzzo-Molise); S.E.R. Mons.  Salvatore Ligorio (Basilicata); infine, non per ultimo, S.Em. Card. Giuseppe Betori, che ha anche  servito per diversi decenni la CEI come direttore dell’Ufficio catechistico nazionale, Sottosegretario,  Segretario Generale e membro del Consiglio Episcopale Permanente in quanto Presidente della  Conferenza Episcopale Toscana. 
Rendiamo lode per i doni ricevuti da questi nostri Fratelli per il bene delle nostre Chiese e dell’intero  Paese. 

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Il nostro pensiero va a quanti sono stati colpiti dall’alluvione e dalle esondazioni in Emilia Romagna e nelle Marche. Ci stringiamo alle comunità locali che, a distanza di poco tempo, si trovano a vivere  un altro dramma. Nelle parole dei nostri Fratelli Vescovi abbiamo ascoltato il grido di sofferenza  delle persone ferite da questa nuova emergenza. Ne ricordiamo due, tra i territori maggiormente  colpiti. «Siamo in apprensione. Siamo in situazione di ansia e attesa», ha affermato S.E.R. Mons.  Lorenzo Ghizzoni, Arcivescovo di Ravenna-Cervia. «Abbiamo bisogno della preghiera perché il  nostro cuore possa chiedere e sentire in mezzo a tanta frustrazione, una nuova speranza», ha detto  S.E.R. Mons. Mario Toso, Vescovo di Faenza-Modigliana. 

Preghiamo per quanti sono in angoscia, perché possano continuare a guardare con fiducia al  domani, anche quando tutto sembra, ancora una volta, perduto. Insieme al ringraziamento alle  Forze dell’Ordine, ai Vigili del Fuoco, alla Protezione Civile e ai volontari impegnati nei soccorsi alla  popolazione, chiediamo alle Istituzioni di intervenire, con tempestività ed efficacia, a sostegno delle  famiglie e del territorio che ha mostrato, di nuovo, tutta la sua fragilità: le accuse vicendevoli e i  proclami lascino il posto a misure adeguate, scelte lungimiranti e azioni concrete.  

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Siamo chiamati a guardare insieme al futuro. È il valore di questi nostri appuntamenti, esercizio di  responsabilità che personalmente sento come luogo decisivo di confronto fraterno, pensoso,  collegiale. A molti, davanti al futuro, viene da abbassare lo sguardo, perché si presentano situazioni  difficili, anzi inestricabili, tra cui tutte le guerre, come in Ucraina e in Terra Santa, delle quali  portiamo nel cuore il dramma e il gemito della nuova creazione che solo la pace può permettere. I  nostri contemporanei scrutano inquieti il futuro e, senza speranza, si rifugiano facilmente  nell’individualismo, non credono possibile un futuro migliore. Così abbassano lo sguardo per evitare  di vedere. È un fenomeno di concentrazione su di sé e di estraniazione dai legami sociali. Un rischio  è quello da cui sovente ci ha messo in guardia Papa Francesco: «State attenti all’“indietrismo”, che  è la moda di oggi, che ci fa credere che tornando indietro si conserva l’umanesimo» (Saluto, 1°  giugno 2022). 

Foto CEP 2Il ministero del Santo Padre 

Un primo e affettuoso pensiero va proprio a Papa Francesco, che ha da poco concluso il suo viaggio di ben dodici giorni (2-13 settembre) in Asia e Oceania, mentre si appresta a compiere quello in  Lussemburgo e Belgio (26-29 settembre). Continua a chiederci di alzare lo sguardo, allargare i nostri confini ed aiutarlo nel servizio decisivo alla comunione nella Chiesa e di unità nel mondo. Portiamo nel cuore le immagini delle popolazioni che presentano i segni tipici della loro cultura, dell’incontro interreligioso di Giacarta in Indonesia, della firma della Dichiarazione congiunta con il Grand Imam Umar nella moschea di Istiqlal sempre a Giacarta, dell’incontro con i bambini delle scuole di Port Moresby in Papua Nuova Guinea e di Irmãs Alma a Timor Est. Così come restano indelebili le parole  che Francesco ha pronunciato nella Cattedrale di Dili: «Timor Est è un Paese “ai confini del mondo”. […] E proprio perché è ai confini si trova al centro del Vangelo». 
Queste immagini e queste parole, insieme a tante altre, sono il segno eloquente dell’impegno del  Santo Padre a confermare nella fede i credenti di tutto il mondo. A lui siamo ancora una volta grati,  perché testimonia quella cattolicità che è fatta da tutte le comunità cristiane sparse nei quattro  angoli della terra: una unità che permette di aprirsi al dialogo con i fratelli di altre fedi e con tutti.  Per questo l’unità, sempre dinamica e custode delle diversità, va continuamente difesa e amata,  dono di Gesù, che ce l’affida. Solo l’unità ci rende forti ed è garanzia indispensabile di sinodalità.  Solo nella comunione le differenze diventano una ricchezza, altrimenti si trasformano facilmente in  modi autoreferenziali e sterili.  

La scelta della speranza 

Siamo chiamati al futuro. Non lo cerchiamo perché abbiamo accumulato garanzie sufficienti per il cammino o per la sicurezza che sarà senza problemi e fatiche. È sempre valido il monito di non prendere due tuniche, sapendo che non ci mancherà quanto ci servirà! Abramo si mette in cammino perché accoglie il Signore solo con un’indicazione e una promessa: «Vattene dalla tua terra, dalla  tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò» (Gn 12,1-2). Commenta la lettera agli Ebrei: «Per fede, Abramo, chiamato da  Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Non è un vago ottimismo che spinge ad “espatriare” dal presente e a guardare al futuro. Il cammino dell’Amico di Dio non è rettilineo. C’è sofferenza, racchiusa nella drammatica  domanda che sgorga dal cuore di Abramo di fronte alla promessa di Dio («la tua ricompensa sarà  molto grande», Gn 15,1). Abramo guarda la sua realtà e non può non esclamare: «Signore Dio, che  cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco» (Gn 15, 2). È  la domanda di molti – penso anche ai nostri sacerdoti e a quanti hanno a cuore le nostre comunità – di fronte ai frutti del loro servizio e alle difficoltà quotidiane: «Un mio domestico sarà mio erede» (Gn 15,3). Cioè la fatica a generare figli, che vuol dire futuro. La risposta di Dio ad Abramo  angosciato, pur partito fiducioso e dopo aver tanto camminato, è la proposta di una visione: «“Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle […] Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette  al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gn 15,5-6). È il dono di una visione del futuro di un  popolo numeroso come le stelle del cielo. 
La visione non si riduce a un percorso o a un manifesto, ma anima il cammino da iniziare ed è la  ragione del programma che deve realizzarla. È quanto testimoniano i martiri: nonostante la violenza  contro di loro, vedono con gli occhi della fede il futuro nel presente. Stefano, primo martire, «vide  la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse: “Ecco, contemplo i cieli aperti”» (At 7,55- 56). 
I martiri sono anche nostri contemporanei. Non hanno seguito l’idolatria dell’individualismo, del  proprio io, del salvare sé stessi, delle ideologie totalitarie, pagane. L’8 agosto sono stato a Lucca per  ricordare gli ottant’anni dell’uccisione di 28 sacerdoti e monaci per mano dei nazifascisti: colpiti in  mezzo al popolo e per il popolo. La lapide che li ricorda recita: «Amici del popolo, martiri del  Vangelo, testimoni di fraternità, profeti di pace». Sono alcuni dei tantissimi sacerdoti e cristiani che,  in quei mesi terribili, hanno dato la vita per il Vangelo e il popolo. Così i martiri missionari per popoli  lontani, che non conoscevano. Sono davvero semi di vita, testimonianza di speranza nel futuro.  Mostrano che la Chiesa è comunità, famiglia di Dio, per cui vivere e dare la vita. Queste sono le vere  radici delle nostre Chiese e ci indicano un atteggiamento forte, generoso, per affrontare con fiducia  le avversità. 

Alle soglie del Giubileo 

Siamo alle soglie del Giubileo, che ci chiama alla speranza che nasce dall’amore di Cristo: «Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere», si legge nella Bolla d’indizione Spes non confundit (n. 9). Sono parole belle e  significative! Si può guardare al futuro con speranza perché la Chiesa è una comunità, nonostante  le nostre fragilità: famiglia in un mondo in cui la solitudine è lo stato esistenziale dell’uomo. C’è una grande responsabilità nel vivere la fraternità cristiana in un mondo di isolati, che vive una crisi di  relazioni, per cui il singolo non sa vedere un futuro per sé, perché il futuro non lo si vede da soli, ma insieme. Anche la famiglia ci dice che non è un progetto di soli, ma di un uomo e una donna, aperto alla vita. Non ci sfuggono le sofferenze di un mondo di soli e dai legami fragili. Questo sollecita un clima di violenza, alimentato anche dalla guerra e da una sua pericolosa riabilitazione. Taluni episodi  ci sconcertano, ci interrogano e ci chiedono di aiutare le nostre famiglie essendo la Chiesa una  famiglia, attenta alle fragilità, una madre vicina alle tante sofferenze, evidenti o nascoste nelle pieghe dell’anima. Il mondo sembra attualmente senza punti di riferimento stabili, prigioniero di  una cultura che riduce tutto alla riuscita della propria vita e dei propri affari, a realizzarsi individualmente, nella logica della prestazione esigente e fragilissima. La conseguenza è una folla di uomini e donne in un’affannosa corsa per realizzare desideri e cogliere opportunità per un  illusorio godimento, per “consumare” la vita, appagando le emozioni. Le nostre comunità sono e  possono essere ancora di più rete di solidarietà che rende forti perché reale e non virtuale, attenta al prossimo e non piegata all’io. «È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola  che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non  illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci  dall’amore divino: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35)» (Spes non confundit, n. 3). Mi pare che la speranza così intesa, cioè come fiducia nell’azione dello Spirito e nel legame con Cristo e con la sua famiglia, possa essere anche il tema di questa fase della vita delle Chiese che sono in  Italia e della CEI stessa. La multiformità della vita ecclesiale italiana, a partire dalla pietà popolare,  è una ricchezza irrinunciabile che sarebbe sbagliato ridurre a un modello. Penso ai movimenti e alle  associazioni, che spesso promuovono eventi che fanno pensare oltre i loro stessi confini, come il  Meeting di Rimini, la Route Nazionale degli Scout, la Preghiera interreligiosa per la Pace della  Comunità di Sant’Egidio, il Pellegrinaggio nazionale delle famiglie per la famiglia del Rinnovamento nello Spirito Santo e tante altre iniziative… La Chiesa è viva! Proprio nel mese di agosto si sono  compiuti ottant’anni da quando san Paolo VI promulgò l’Ecclesiam suam, ricordata come l’Enciclica  del dialogo: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67), annota Papa Montini e aggiunge illustrando il sentimento cristiano: «Lo stato d’animo di chi sente dentro  di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza  dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è  depositario, nella circolazione dell'umano discorso» (Ecclesiam suam, 82). 

Il Cammino sinodale delle Chiese in Italia 

Ci troviamo in un crinale importante del Cammino sinodale, all’inizio della “fase profetica”. Tra  poche settimane, dal 15 al 17 novembre, si celebrerà la prima Assemblea sinodale nazionale,  mentre a livello universale ci apprestiamo a vivere la seconda sessione della XVI Assemblea generale  ordinaria del Sinodo dei Vescovi (2-27 ottobre). Lo scorso 6 settembre ho partecipato alla riunione  della Presidenza del Comitato del Cammino sinodale, che stava lavorando sulla bozza dei  Lineamenti. Lì ho riscontrato in piccolo quello che ho colto in questi anni a vari livelli e in vari ambiti:  tanti uomini e donne stanno mettendo cuore e mente per realizzare il sogno di una Chiesa sinodale  e missionaria e, quindi, più accogliente, aperta, snella, capace di camminare con le persone, umile.  Quante attese, a volte segnate da una certa disillusione, ma in realtà fiduciose dei cambiamenti  necessari per una Chiesa che, nella Babele del mondo, parli il linguaggio dell’amore e annunci la  speranza di Cristo. Vedo persone che stanno dando molto e che molto si aspettano da noi: non  possiamo deluderle! Il Cammino sinodale è una straordinaria opportunità per le nostre Chiese, che  non dobbiamo perdere, a partire da noi Pastori. 
Di certo, non mancano i problemi. Ma ne eravamo consapevoli sin dall’inizio. Non solo perché  sapevamo che camminare insieme è più difficile che andare ciascuno per la propria strada.  Sapevamo anche che ci saremmo trovati di fronte a qualcosa di inedito: alcune prassi e regole  ecclesiali non si adattano più alla realtà e vanno per questo riscritte. Dobbiamo farlo insieme, con  pazienza e sapienza ma anche con coraggio e con l’intelligenza dello Spirito, mettendo da parte il  desiderio di prevalere e anteponendo l’ascolto dello Spirito. In questo senso, siamo lieti di  annunciare la sede scelta per la prima Assemblea sinodale: saremo nella Basilica di San Paolo fuori  le mura, a testimonianza del fatto che questo evento è come una liturgia, una grande preghiera  comunitaria, in ascolto tutti insieme dello Spirito che parla alle Chiese (cf. Ap 2-3). 
Se è la speranza a guidarci e non la sfiducia o il disincanto, allora potremo affrontare anche le  questioni ecclesiali più delicate e nuove con coraggio e intelligenza. Tra queste – non possiamo  nasconderlo – c’è il tema dell’esercizio dell’autorità nella Chiesa che richiede per tutti la decisione,  sempre rinnovata, di servire, di donare sé stessi. A livello di Sinodo universale, questo tema assume  i contorni del primato petrino (cfr. Instrumentum laboris per la seconda sessione della XVI  Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 100-108), ma non solo: i delegati del Sinodo  si stanno confrontando apertamente infatti anche su temi più rilevanti per noi come la trasparenza, il rendiconto, la valutazione esterna nei processi decisionali (cfr. Ivi, nn. 67-79).
A livello del nostro Cammino sinodale si pone la questione dell’esercizio del ministero di guida del  Vescovo in Diocesi, come anche del ruolo della CEI nei confronti delle Chiese locali. Abbiamo bisogno di concretizzare in termini pastorali e anche giuridici le riflessioni che riguardano ad  esempio il binomio “consultivo-deliberativo”, chiarendo la necessità di un discernimento comunitario maturo per preparare le scelte più delicate che competono ai Vescovi. 

Foto CEP 3La riforma della CEI 

È questo anche il tempo di essere propositivi e concreti nell’impostare la riforma della CEI, che ha celebrato il 60° anniversario della prima riunione di tutti i Vescovi residenziali d’Italia (14-16 aprile 1964) ma anche i 70 anni dalla promulgazione del primo Statuto (provvisorio), considerato l’atto di  nascita della Conferenza Episcopale (1° agosto 1954). Tutti noi Vescovi sentiamo l’esigenza che la CEI divenga uno strumento ancora più adeguato a servire le nostre Diocesi, anche raccogliendo l’invito di Papa Francesco che sia uno strumento agile ed efficace, soggetto di comunione e che aiuti  la Chiesa a rispondere adeguatamente alle attese così profonde della nostra gente e del mondo. Una possibile riforma dello Statuto s’inserisce in questo quadro. Dal Cammino sinodale stanno  emergendo anche sollecitazioni per ripensare i rapporti e i vincoli tra i vari livelli ecclesiali: le  Diocesi, le Metropolie, le Conferenze Episcopali Regionali, oltre che la Conferenza Episcopale nazionale. 

Una “Camaldoli per l’Europa” 

I viaggi del Papa ci spingono a mantenere uno sguardo ecclesiale anche al di là dei confini nazionali.  In questi giorni si è parlato d’innovazione e d’investimenti per una economia europea moderna e  sostenibile, con riferimenti anche al lavoro e alla demografia, lasciando intravvedere un nuovo  “piano Marshall”, più ambizioso di quello del secondo Dopoguerra, rappresentando l’UE come  destinata altrimenti a una lenta agonia. Nel frattempo, si sono definiti squadra e programma della  nuova Commissione europea che, fra l’altro, prevede alcune nuove deleghe alla difesa, al  Mediterraneo e alla questione abitativa. L’auspicio è che l’Europa resti fedele alla sua vocazione al  dialogo e alla pace. La politica fa – anzi, deve fare – i suoi percorsi. Ma nella nostra prospettiva di  credenti, i cittadini europei hanno bisogno oggi più che mai di riappropriarsi di quella storia e di  quella cultura che ha fatto grandi le terre europee, ad iniziare dall’eredità della Bibbia e alla  conseguente centralità della persona, al patrimonio religioso ebraico, all’umanesimo laico, ai tanti  aspetti della cultura europea impregnati di senso religioso che costituiscono l’anima delle nostre  società. Ugualmente occorre tenere lo sguardo su alcuni dati importanti che riguardano oggi il  nostro Continente: l’invecchiamento della popolazione, le povertà, il fenomeno migratorio, il  secolarismo e l’individualismo. 
Mentre si affrontano i problemi contingenti, mi piacerebbe che si aprisse una discussione più  ampia: una “Camaldoli per l’Europa” per parlare di democrazia ed Europa. Potrebbe essere anche  l’occasione per riflettere sul contributo che oggi può provenire dai cattolici in primis, come anche  dai cristiani di tutte le Confessioni, dai credenti delle diverse Comunità religiose oggi presenti in  Europa, dagli umanisti che hanno a cuore la cultura del nostro Continente, per uno sviluppo di una  coscienza comune, che allarghi i confini dei cuori e delle menti e non ceda al nichilismo della  persona e a sovranismi egoistici. Un’Europa nel segno della “Fratelli tutti”, coesa e solidale al suo  interno e aperta al mondo.

I frutti della 50ª Settimana Sociale 

Quest’anno ricorrono anche i 40 anni della Revisione dei Patti Lateranensi (18 febbraio 1984), che li ha resi conformi ai principi introdotti nello Stato dall’entrata in vigore della Costituzione  repubblicana e nella Chiesa dal Concilio Vaticano II e dal nuovo Codice di diritto canonico del 1983. Al contributo della Conferenza Episcopale si deve la scrittura dell’art. 1 dell’Accordo il quale, dopo  aver riaffermato che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e  sovrani, impegna entrambi «alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese». A quell’impegno di rispettosa libertà e leale collaborazione, la Chiesa in Italia intende  restare fedele. Proprio la preoccupazione per la promozione del bene dell’uomo e il bene comune  ha ispirato la comunità cristiana nell’organizzazione delle Settimane sociali, che quest’anno hanno  celebrato la 50ª edizione. 
La fede – ne siamo tutti convinti – incide nella vita delle persone e della società a breve e soprattutto  a lungo termine. Se è vero che si nutre del dono dell’Eucaristia celebrata in fraternità, è altrettanto  vero che non è relegabile nel privato. Papa Francesco ci ha ricordato, anzi, che ci si salva insieme. Fratelli tutti! Anche a Trieste, alla 50ª Settimana Sociale ha detto: «La fraternità fa fiorire i rapporti  sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come  popolo». 
La fraternità cristiana, che testimonia la presenza del Signore tra noi, fa fiorire le relazioni sociali e  contribuisce a creare un popolo. È la fraternità che è stata così vivace a Trieste, alla Settimana  Sociale. L’ho notato negli incontri, nelle discussioni, nella preghiera comune: la gioia di essere  insieme e di pensare al nostro Paese e al suo futuro. Mi sono chiesto il perché di una fraternità  costruttiva e felice, come quella. È espressione di un bisogno profondo della comunità ecclesiale. È  la gioia di guardare insieme al futuro, che si fonda sulla fede comune, vissuta nella preghiera e nella  liturgia, sull’ascolto vicendevole, ma anche sulla lettura dei segni dei tempi della società italiana.  Non solo insieme, ma in ascolto della Parola di Dio e rivolti alla vita, alla storia, attenti ai segni dei  tempi. Questa attenzione al “fuori” ci aiuta a comprendere il mondo e la sua complessità perché il  Vangelo sempre ci porta dentro il profondo della storia. Ci dice la Gaudium et spes: «È dovere  permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così  che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini  sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche» (n. 4). Questo ci spinge a  riflettere sulla tentazione di una vita o di dinamiche di riunioni autoreferenziali o autocentrate: la  fraternità cristiana è sempre aperta e attenta al mondo in cui vive, perché ha la missione del  Vangelo. Il Papa ci ha ricordato che «la democrazia non gode di buona salute», riprendendo di fatto  il monito del Presidente Mattarella che, nel suo magistrale intervento, ha parlato di pericolo  concreto di diventare «analfabeti di democrazia». 
A Trieste abbiamo dedicato molto tempo al confronto nei “Tavoli della democrazia”, abbiamo  vissuto la città mettendo in rilievo le buone pratiche e abbiamo animato le piazze con i dibattiti  aperti a tutti: non abbiamo semplicemente parlato di partecipazione democratica, ma l’abbiamo  realizzata concretamente. Da questi “Tavoli della democrazia” è emersa la richiesta pressante di un  maggiore protagonismo dei giovani per il rinnovamento dello stile nell’impegno sociale e politico. 
Ci auguriamo di raccogliere i frutti di questo lavoro, soprattutto nella formazione delle coscienze alla partecipazione democratica del nostro Paese. Non dobbiamo disperdere energie e idee. Sappiamo che, quando la Chiesa non si chiude in sé stessa, ma abita i territori, costruisce reti e  favorisce quella conversione al bene comune, che ha ricadute positive su tutti. Davvero la Dottrina  sociale è un patrimonio che consente a tutti, in particolare ai laici cattolici, di avere un faro per una  navigazione sicura nel mare della vita sociale. Ringraziamo quindi tutti coloro che hanno contribuito alla buona riuscita della Settimana Sociale, in particolare il Comitato Scientifico e Organizzatore guidato da Mons. Renna. A noi Vescovi il compito adesso di fare discernimento per stimolare la  formazione sociopolitica e favorire un rinnovato protagonismo laicale. 

L’urgenza educativa 

Alcuni recenti fatti di cronaca, che hanno avuto come protagonisti i giovani, hanno riacceso i  riflettori sulla questione educativa, tema che da sempre sta a cuore alla Chiesa in Italia, al quale  peraltro è stato dedicato un decennio (2010-2020) di riflessione e impegno. Crediamo sia opportuno parlare di urgenza in quanto, come abbiamo visto, si tratta del rapporto con la vita, con  i sentimenti, con l’amore, con il futuro… Ed è un’urgenza che interpella tutti, nessuno escluso: la  famiglia, la scuola, le aggregazioni, la parrocchia, la comunità, i movimenti e le associazioni.  Soprattutto, gli adulti chiamati a un maggiore senso di responsabilità. Infatti, «il futuro dell’umanità» è «riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di  domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et spes, n. 31). 
Come Chiesa ci sentiamo pienamente coinvolti e non smetteremo di mantenere alta l’attenzione,  perché sono in gioco le persone, la loro realizzazione, la possibilità di vivere l’esistenza in pienezza.  Nell’incontro con il Signore e camminando accanto a loro, siamo chiamati ad accompagnare le  giovani generazioni in un percorso di riconciliazione con il proprio sé, di conoscenza e  apprezzamento delle risorse personali, di appartenenza ad un gruppo, ad una persona. Sono  necessari luoghi, fisici e non virtuali, in cui tornare a fare esperienza di gratuità e libertà personale  e comunitaria. Penso, in modo particolare, al prezioso servizio degli Oratori, del dopo-scuola e di  tante altre attività formative, che conservano intatta la loro attualità e chiedono un rilancio di  progettualità e creatività. 
Dobbiamo lavorare, tutti insieme, per sradicare i semi dell’individualismo che soffoca la dimensione  umana e disconosce la presenza degli altri. Non ci sono ricette facili, né risposte preconfezionate a  buon mercato, ma non per questo dobbiamo cedere al pessimismo o al disfattismo che paralizza  ogni tentativo di azione. L’orizzonte è quello della speranza, che non è un palliativo, una pacca sulle  spalle, ma è consapevolezza che Dio illumina il cammino da compiere, perché Egli ama di amore  eterno ed è sempre presente nella storia di ogni vivente. Non è ingenuità, è concretezza. 
Nei giorni in cui le aule scolastiche tornano a riempirsi, il nostro pensiero va ai milioni di bambini, ragazzi e giovani, con i loro insegnanti e il personale amministrativo, pronti ad affrontare  l’avventura più affascinante e impegnativa: quella della conoscenza, della formazione di sé, della  convivenza fraterna. La Chiesa è vicina a quanti accolgono la sfida dell’educazione, per cui ogni energia e investimento non sono mai perduti, ma tornano moltiplicati a beneficio di tutta la società.  L’investimento sulla scuola è certamente tra i più importanti per una società che abbia a cuore le  nuove generazioni e il suo stesso futuro. Desideriamo esprimere un grazie particolare e un forte  incoraggiamento alle oltre 7.500 scuole cattoliche e alle centinaia di migliaia di famiglie che  affrontano importanti sacrifici per iscrivervi i loro figli, con la speranza che si avvicini il giorno in cui  la parità scolastica trovi la sua piena attuazione. In questo contesto educativo si inserisce anche il  contributo dell’insegnamento della religione cattolica di cui parleremo nel corso dei nostri lavori  per sottolineare – a quasi quarant’anni dalla sua introduzione – il valore di questo spazio di libertà  e di cultura religiosa posto a servizio dell’intera comunità civile e per aggiornarne e rilanciarne il  contributo. 

A tutti auguriamo un buon anno scolastico!

In ascolto dei poveri 

Nel guardare la società italiana e il mondo il primo segno che ci appare è quello dei poveri.  Francesco rilancia l’insegnamento di Benedetto XVI: la scelta dei poveri «è implicita nella fede  cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci con la sua povertà (cfr 2 Cor 8,  9)» (Discorso in occasione della sessione inaugurale dei lavori della V Conferenza generale  dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, 13 maggio 2007).  
Questo riguarda tutti i cristiani personalmente: ripartire dai poveri vuol dire anche ripartire dal  contatto personale con il povero, cui siamo tutti chiamati. «Nessuno dovrebbe dire che si mantiene  lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre  incombenze» (Evangelii Gaudium, n. 201). Siamo tutti sulla via tra Gerico e Gerusalemme, dove  giace un uomo mezzo morto, qualunque siano le nostre incombenze. Il Vangelo, l’insegnamento di  Papa Francesco, ci stimolano a mettere il povero al centro della nostra vita, della pastorale, della  predicazione, sottolineando il valore umano dell’incontro con lui, ma anche il significato cristologico dell’amore per i più piccoli tra i fratelli di Gesù.  
«I poveri – scrive Georges Bernanos – hanno il segreto della speranza. Mangiano ogni giorno dalla  mano di Dio e quindi devono sperare sempre, sempre. […] Solo i poveri sperano per tutti noi, come  solo i santi amano e sperano per tutti noi. La traduzione autentica della speranza è nelle mani dei poveri». 
Nei percorsi educativi delle nostre comunità e istituzioni il tratto distintivo deve essere la familiarità  e il servizio ai poveri. Senza fare catechesi a nessuno, sono loro infatti a introdurre alle profondità  della fede e dell’incontro con Gesù. Le nostre opere, iniziative, istituzioni, le nostre imprese in  favore degli emarginati sono importanti. Ma tutte dovrebbero verificarsi nel confronto evangelico  con la realtà del povero, dando valore al contatto personale con la sua persona. I poveri sono i  fratelli più piccoli di Gesù, ma anche i nostri fratelli, i fratelli dei cristiani, segno eloquente della  presenza del Signore. Il povero non può diventare numero, oggetto, caso sociale per noi. Almeno non solo questo! La sinodalità non può non riguardare i poveri e i loro bisogni, perché i nostri servizi sono alla luce della fraternità cristiana che è prima di tutto apertura a quanti sono amati dal Signore, pur essendo ultimi. 
Vorrei infine ricordare le parole che Papa Francesco ha voluto rivolgere, con insistenza, riguardo le persone che attraversano «mari e deserti per raggiungere una terra dove vivere in pace e sicurezza» (Udienza generale, 28 agosto 2024). «Il mare nostrum, luogo di comunicazione fra popoli e civiltà,  è diventato un cimitero. E la tragedia è che molti, la maggior parte di questi morti, potevano essere  salvati» (Ivi). Facciamo nostro l’appello accorato del Papa: in quei mari e in quei deserti mortali, i  migranti di oggi non dovrebbero esserci. Il risultato si ottiene «ampliando le vie di accesso sicure e  le vie di accesso regolari per i migranti, facilitando il rifugio per chi scappa da guerre, dalle violenze,  dalle persecuzioni e dalle tante calamità; lo otterremo favorendo in ogni modo una governance globale delle migrazioni fondata sulla giustizia, sulla fratellanza e sulla solidarietà. E unendo le forze  per combattere la tratta di esseri umani, per fermare i criminali trafficanti che senza pietà sfruttano  la miseria altrui» (Ivi). Anche nella prospettiva della necessaria integrazione ci permettiamo di  aggiungere che bisogna fare presto e prendere i provvedimenti opportuni che garantiscano i diritti  e richiedano il dovere perché l’Italia possa crescere pure con il contributo di quanti vengono proprio  per trovare futuro. Un pensiero grato vorrei adesso rivolgere a quanti si prodigano, senza risparmio  di energie, per accogliere questi nostri fratelli e accompagnarli nel cammino dell’integrazione e  della promozione: i centri Caritas e Migrantes, le Diocesi, le organizzazioni di volontariato, ecc. La  questione riguarda tutti, le istituzioni come le comunità, per questo siamo grati ai tanti che si  impegnano per un nuovo futuro per loro e per la nostra società.

Conclusione 

Il tema della speranza ha fatto da “filo rosso” a questo intervento. «Chi ci separerà dall’amore di  Cristo» (cf. Rm 8,35). Ci sono altre parole simili che vorrei in conclusione citare: sono quelle scritte  su pezzi di carta di fortuna da don Aldo Mei, presbitero di Lucca, giustiziato dai Tedeschi il 4 agosto 1944. Tra le altre cose, quell’ultima notte scriveva ai suoi genitori: «Babbo e Mamma, state  tranquilli: sono sereno in quest’ora solenne. In coscienza non ho commesso delitti. Solamente ho  amato come mi è stato possibile. [Subisco la] condanna a morte per aver protetto e nascosto un  giovane di cui volevo salva l’anima e per aver amministrato i sacramenti ai partigiani, e cioè aver fatto il prete». 
Il ricordo di presbiteri simili, come di tante altre persone che hanno perso la vita per aver amato i  fratelli senza riserva, per amore del Vangelo, ci deve essere di ispirazione. I nostri tempi non sono  certo più difficili di quelli. Anche oggi abbiamo bisogno di Vescovi, di preti, di religiosi e laici che  siano disposti a dare la vita per il Vangelo, per amore delle persone che ci sono affidate. 
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di avermi ascoltato e di quanto vorrete osservare e proporre.  Torniamo ad affidare queste giornate di lavoro comune all’intercessione della Vergine Maria, ricolma di Spirito Santo.