Santa Messa in suffragio di Papa Francesco presieduta dal Card. Zuppi: l'omelia
Mercoledì 23 Aprile una delegazione della Segreteria Generale della CEI si è recata a Roma per la Santa Messa in suffragio di Papa Francesco. Di seguito il pensiero del Card. Matteo Zuppi che ha presieduto l'Eucaristia sull'Altare della Cattedra (Foto: CEI - Conferenza Episcopale Italiana).
Quanta emozione nel celebrare in questa casa che ci riporta al ministero affidato da Gesù a Pietro, primato indispensabile che serve e rappresenta la comunione, antidoto al banale protagonismo, presidenza nella carità di un popolo che dall’Oriente all’Occidente è radunato dal Signore. Non è scontato, quando una cosa sola è l’individuo, non persone diverse ma unite dall’amore. “Presiede nella carità” (Inscr.: PG 5, 801) Diceva Papa Benedetto: “In effetti, il presiedere nella fede è inscindibilmente legato al presiedere nell’amore La vera fede è illuminata dall’amore e conduce all’amore, verso l’alto, come l’altare della Cattedra eleva verso la finestra luminosa, la gloria dello Spirito Santo, che costituisce il vero punto focale per lo sguardo del pellegrino quando varca la soglia della Basilica Vaticana. A quella finestra il trionfo degli angeli e le grandi raggiere dorate danno il massimo risalto, con un senso di pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso”. L’umanità, quindi la parzialità, del nostro amore, segnato sempre anche dalla nostra fragilità umana, non solo non impedisce questa bellezza, ma la fa risaltare, perché non è la luce ipocrita dei farisei o dell’esaltazione di sé come è la gloria degli uomini, ma è quella di peccatori perdonati, nella cui debolezza risalta la grandezza di Dio. Preghiamo per Lui e insieme a questo popolo immenso in una casa comune segnata da tante divisioni, incapace di pensarsi insieme, di ascoltare il grido dei poveri, che costruisce altre lance e distrugge le falci e dove, pericolosamente, ci si lascia persuadere dalla logica della forza e non da quella del dialogo, dal pensarsi senza o sopra gli altri e non dal faticoso ma indispensabile pensarsi insieme.
Ringraziamo per il dono di questo padre e Pastore, fratello, che ha speso fino alla fine la sua vita, con tanta libertà evangelica, senza supponenza, scegliendo la semplicità e ricordando che questa è, nella tradizione francescana, sorella germana della povertà, il quale non approvava “ogni tipo di semplicità, ma quella soltanto che, contenta del suo Dio, disprezza tutto il resto. È quella che pone la sua gloria nel timore del Signore e che non sa dire né fare il male. La semplicità che esamina se stessa e non condanna nel suo giudizio nessuno, che non desidera per sé alcuna carica, ma la ritiene dovuta e la attribuisce al migliore”. Semplice e normale, ma non per banalità o minimalismo, anzi, al contrario per comunicare ancora di più la grandezza di Dio, la gloria dell’umile che libera dalla tentazione di quella vuota dei farisei o dell’arrogante. Ha voluto la Chiesa credibile perché povera e amica dei poveri.
“Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do”: è questa l’unica forza che permette alla Chiesa di ridare speranza a chi l’ha persa. L’amore, il servizio, si accorge del povero, della sua attesa, sa guardare e raccoglie e fa sua la speranza, proprio perché ha solo amore, vive la compassione di Gesù. Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Siamo noi i due discepoli di Emmaus. La tristezza è molto più pervasiva di quello che pensiamo, avvolge i cuori, impedisce come la malinconia di vedere altro, di riconoscere la vita intorno, come quel pellegrino di cui pure parlavano e che desideravano. La tristezza non fa accorgere. Tornavano da dove erano venuti. La speranza appare impossibile e non bastano certo le parole dei discepoli o di alcune donne che dicono che è vivo. La Parola di Dio si affianca di nuovo e ci dice che la vita passa attraverso la sofferenza, che la morte è un inizio, che niente è perduto perché si trasforma, è avanti, non indietro. Sì, stolti e tardi di cuore lo siamo nel comprendere come solo vivendo le sofferenze possiamo entrare nella sua gloria. È questo - con la sua vita, le sue parole, la sua testimonianza ancora più evidente quando risaltava la forza nella fragilità del corpo - che ci ha trasmesso Papa Francesco. Ha indicato la gioia e non la tristezza, ha messo al centro le parole di Gesù, il kerigma, liberando da tante glosse, personali e ecclesiastiche, che lo rendevano inefficace, tanto da non parlare più al cuore, quasi da pensare di non avere niente da dire a chi, invece, cercava proprio le parole di vita eterna che solo Lui ha vere.
Oggi sentiamo Papa Francesco che si affianca, come ha fatto, nel nome di Gesù ai credenti spenti di entusiasmo e dalla paura. Ci ha fatto vedere, anche fino alla fine, come seguire la strada di Gesù è donarsi, individuare i luoghi dove è umiliato per trovarvi gioia. E ci ricorda di essere nella gioia, come nel suo ministero ha sempre indicato. Prendiamo le sue parole e i suoi gesti che ci aiuteranno ad aprire gli occhi, a non tornare ad Emmaus, alla sicurezza senza speranza, per camminare di nuovo insieme. Un angelo che non smetterà di indicarci la presenza e di aiutarci a riconoscerla e a rifletterla per tanti che la cercano. Con gli occhi finalmente aperti e con un cuore pieno di passione perché pieno della sua parola. Ritrovano i fratelli e si confermano a vicenda, raccontando come l’avevano riconosciuto, testimoniando, riscostruendo quella fraternità e quella comunione che il male vuole dividere e rendere insignificante.
Papa Francesco continua a parlarci di questo essere pellegrini e ci chiede di esserlo noi, ma insieme, comunità cristiana forte perché piena di amore vero, umano, di relazioni personali perché al centro c’è la relazione con la parola. Ci indica l’umiltà “che libera dall’ossessione di preservare la propria gloria, la propria ‘dignità’, la propria influenza” mentre possiamo cercare la gloria di Dio che sfolgora nel disonore della croce di Cristo. Il disinteresse. Evitiamo di “rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli”. “La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda”. La beatitudine. “La Chiesa italiana sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno (1 Cor 9,22)”. Ci indica i santi per vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri e anche personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Ci raccomanda anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro, che non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune, ma occorre cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. “Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo. Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”.
“Signore, in questa festa noi ti chiediamo questo dono: di essere noi pure nuovi per vivere questa perenne novità. Scrostaci, o Dio, la triste polvere dell’abitudine, della stanchezza e del disincanto; dacci la gioia di svegliarci, ogni mattino, con occhi stupiti per vedere gli inediti colori di quel mattino, unico e diverso da ogni altro. […] Tutto è nuovo, Signore, e niente ripetuto, niente vecchio” (A. Zarri, Quasi una preghiera). Sorelle, fratelli, nello stupore della fede pasquale, portando nel cuore ogni attesa di pace e di liberazione, possiamo dire: con Te, o Signore, tutto è nuovo. Con Te, tutto ricomincia. Cari fratelli e sorelle, nella Pasqua del Signore, la morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello, ma il Signore ora vive per sempre (cfr. Sequenza pasquale) e ci infonde la certezza che anche noi siamo chiamati a partecipare alla vita che non conosce tramonto, in cui non si udranno più fragori di armi ed echi di morte. Affidiamoci a Lui che solo può far nuove tutte le cose (cfr. Ap 21,5)!