Giubileo dei Malati: l'omelia di Mons. Sabino Iannuzzi
Martedì 11 Febbraio 2025, Memoria della Beata Vergine di Lourdes, gli operatori sanitari e i volontari U.N.I.T.A.L.S.I della nostra Diocesi si sono ritrovati a Castellaneta per vivere il Giubileo dei Malati. Nel primo pomeriggio Mons. Sabino Iannuzzi si è recato presso il Presidio Ospedaliero locale per visitare gli assistiti. Successivamente dall'androne del San Pio è iniziata la statio che si è conclusa con la Santa Messa presieduta da Mons. Iannuzzi presso la Parrocchia Cuore Immacolato di Maria. Di seguito l'omelia pronunciata da Mons. Vescovo.
In questa giornata così significativa nell’ambito dell’anno giubilare, in cui celebriamo la Memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes – 33ª Giornata Mondiale del Malato -, la nostra attenzione si rivolge in modo particolare ai nostri fratelli e sorelle malati, a cominciare da coloro che ho avuto la gioia di incontrare nel primo pomeriggio nei reparti del nostro Ospedale cittadino, e a voi, qui presenti, accompagnati dalle associazioni impegnate nella pastorale della salute.
Vi saluto tutti con affetto per aver accolto l’invito e vi ringrazio per tutto ciò che fate. Un ringraziamento particolare va a don Pierino Balzello, responsabile diocesano per la Pastorale della Salute, a don Giovanni Nigro, referente diocesano per il Giubileo, a don Oronzo Marraffa, parroco di questa comunità che ci ospita, e a tutti i presbiteri presenti…
Esprimo la mia gratitudine – che diventa preghiera – a «tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili» (Spes non confundit, 11).
Un ringraziamento particolare va anche al Dott. Gregorio Colacicco, Direttore generale dell’ASL Taranto e alla Dottoressa Vinci, Direttore Sanitario dell’Ospedale di Castellaneta.
Ancora una volta, risuona con forza l’appello di quest’Anno Santo a farci «pellegrini di speranza» per essere «forti nelle tribolazioni della vita» (cfr. Rm 12,12), sostenuti:
- dalla forza della Parola che ci illumina con il suo messaggio di consolazione;
- dalla grazia dell’Eucaristia che condividiamo, affinché il Signore rinnovi il suo desiderio di stare con noi, aiutandoci ad aprire gli occhi per riconoscere la sua presenza d’Amore;
- dal dono speciale dell’indulgenza plenaria, che in questo luogo, al di là dei benefici giubilari, è possibile conseguire ogni giorno dallo scorso 8 dicembre e fino alla prossima solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, a motivo dei sessant’anni dall’apertura al culto di questa Chiesa parrocchiale.
Nella prima lettura, l’autore del libro della Genesi, descrive la parte conclusiva del primo racconto della creazione, quello di tradizione sacerdotale, che mira a offrire una visione completa dell’origine degli esseri secondo un piano meditato e in un ordine crescente di dignità. Mentre si susseguono gli atti creativi, intesi come condivisione dell’amore benevolo del Signore, l’autore mostra come Dio dia origine alla vita sulla terra e crei l’essere umano «a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina» (Gen 1,26-27).
Ciò che colpisce in particolare – nel succedersi degli eventi della creazione – è la ripetuta affermazione secondo cui «Dio vide che era cosa buona». Infatti, tutto ciò che procede dalle mani di Dio non può che essere buono e, soprattutto, riflettere la sua bellezza, perché il Signore, non solo crea, ma si prende cura, sostiene, libera, agisce con potenza, salva e benedice.
Fratelli e sorelle, l’autore del libro della Genesi ci ricorda che l’essere umano – vale a dire ciascuno di noi, così come siamo – trae origine dal cuore stesso di Dio; egli è voluto e amato perché è parte di un disegno di bene.
Al contempo, però, dobbiamo essere consapevoli che le realtà del mondo e della nostra esistenza portano in sé anche i segni della fragilità, della malattia e della sofferenza.
Allora sorge spontanea la domanda: come è possibile conciliare la contraddizione tra la bontà originaria e le ferite e le fragilità che segnano la nostra vita?
Possiamo accettarlo solo facendo nostra la consapevolezza che, pur essendo creature “molto buone” (cfr. Gen 1,31), come immenso dono di Dio, siamo comunque segnati dal limite. Solo così avremo la concreta possibilità di aprirci alla fiducia in Dio che, manifestando la tenerezza di Padre, ci fa desiderare la salvezza nella prospettiva delle beatitudini quale autentico itinerario di felicità.
Infatti, contemplando l’esperienza della malattia, quando ci sembra di perdere il controllo e le sicurezze (anche se talvolta solo apparenti), abbiamo l’opportunità di sperimentare, anche sacramentale, che non siamo soli: Dio non ci abbandona, si avvicina a chi è nella sofferenza, lo conforta con l’olio della consolazione e il vino della speranza, e lo affida all’albergatore, che rappresenta la Chiesa, alla quale ci affida, perché non potrà mai contraddire l’opera delle sue mani. È quello il tempo in cui Egli fa vicino (diventa prossimo!) e ci offre la sua grazia per vivere anche la sofferenza in una prospettiva di speranza.
In un’esperienza di vita come questa non possiamo far altro che associarci al canto del salmista, riconoscendo e lodando alla grandezza del Creatore: «O Signore, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!”» (Sal 8).
È l’invito a rendere attento il nostro occhio, non solo esteriore ma soprattutto interiore, e contemplare l’universo, manifestando meraviglia – sempre e di nuovo – per l’immensità e la bellezza di ciò che Dio ha fatto, tanto da chiedersi: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8,5).
Come a dire, anche nei momenti in cui si sperimenta la malattia: “Chi sono io, Signore, perché Tu ti prenda cura di me?”.
È il salmista stesso che, quasi conducendoci per mano, ci offre la risposta, quando afferma che Dio ha posto la persona umana al centro della sua creazione, l’ha coronata di gloria e onore. Perché, anche quando la sofferenza sembra sfigurarci, la dignità che Dio ci ha donato resta intatta ed ogni persona, specialmente se fragile, sofferente o malata, rimane al centro dell’amore di Dio, degna di rispetto e di attenzione.
Questa verità ci invita a guardare sempre ai malati non come a “pesi” o “problemi” da risolvere, ma come fratelli e sorelle da servire e con i quali condividere la compassione e la solidarietà.
Ricordiamoci sempre che nella misura in cui ci prendiamo cura di chi soffre, si manifesterà il grado di amore concreto che abita in ciascuno di noi.
Nella pagina del vangelo (Mc 7,1-13), Gesù affronta la non facile polemica con i farisei e alcuni scribi, venuti da Gerusalemme, riguardo alle tradizioni rituali e, in particolare, all’osservanza esteriore delle purificazioni. I farisei, infatti, per condannarlo, gli rimproverano che i suoi discepoli non eseguano correttamente certe pratiche di purificazione delle mani, poiché: «prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7,2). Dinanzi a tutto ciò Gesù – citando il profeta Isaia, che denunciava un popolo capace di onorare Dio con le labbra ma dal cuore lontano (cfr. Mc 7,6-7) – risponde smascherando l’ipocrisia (incombente nel vivere umano), mettendo in guardia dal rischio sempre presente di fermarsi all’esteriorità, trascurando ciò che più conta: la disposizione interiore del cuore.
Fratelli e sorelle, questo è un richiamo sempre valido. Anche noi, a volte, rischiamo di dare più peso alle apparenze, alle regole o alle consuetudini umane, dimenticando che l’essenziale è l’amore di Dio e del prossimo.
Papa Francesco, nella Bolla di indizione di questo Giubileo, Spes non confundit – come abbiamo già avuto modo di ascoltare nella preghiera iniziale del nostro pellegrinaggio – descrivendo l’importanza dei segni dei tempi, suggerisce concreti «segni di speranza» che siamo chiamati ad offrire, tra gli altri, alle persone ammalate che si trovano in casa o in ospedale e raccomanda:
«Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia[1] sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili.
Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera» (Spes non confundit, 11)
Un appello lo rivolgo al mondo della sanità e ai suoi protagonisti: sforzatevi di rendere sempre più umanizzanti e socializzanti i luoghi di cura.
Dinanzi alla sofferenza di chi è nella malattia chiediamoci, lasciando rispondere la voce presente nell’intimo della coscienza di ciascuno:
“Stiamo davvero amando chi soffre? Siamo disponibili a chinare il capo e a sporcarci le mani e il cuore per chi è nella fragilità del dolore?”.
Così la malattia si trasformerà in una cattedra di autenticità e di purificazione, che permetterà di comprendere – andando in profondità nella vita – ciò che davvero conta, ossia l’Amore che parte dal cuore e che si fa vicinanza concreta. Potremo allora ascoltare il risuonare della parola del Signore che ripete: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
La liturgia, oggi, ci fa celebrare la Beata Vergine Maria di Lourdes, memoria che ci rimanda ad un luogo divenuto simbolo di guarigione e di speranza per tanti malati. A Lourdes, Maria si è mostrata vicina ai piccoli e ai sofferenti, portando a Santa Bernadette Soubirous un messaggio di amore e di fiducia. Lei, l’Immacolata, si presenta come una madre che, con tenerezza, ci indica il Figlio suo, l’unico che salva e guarisce in profondità.
La Vergine Maria, allora, ci insegna a guardare ai malati con lo stesso sguardo evangelico di Gesù: occhi di misericordia, di compassione e di partecipazione.
Nel giorno in cui tutta la Chiesa celebra la Giornata Mondiale del Malato, ci uniamo a chiunque sperimenta la fatica, il dolore e la malattia, ed imploriamo l’intercessione di Maria affinché ottengano consolazione, forza e, se Dio vuole, la guarigione del corpo e dello spirito.
Questo Giubileo dei Malati ci ricorda la vocazione della Chiesa a essere “ospedale da campo”, come ama dire Papa Francesco, cioè una comunità che si prende cura delle ferite degli uomini e delle donne del nostro tempo. Non basta dare risposte formali o parole di circostanza: c’è bisogno di prossimità concreta, di presenza che ascolta, di gesti di carità e di sostegno.
La malattia mette in evidenza la nostra comune fragilità: nessuno è autosufficiente!
Solo facendo propria questa consapevolezza potrà nascere la solidarietà, la compassione, quell’“esserci” gli uni per gli altri che diventa testimonianza cristiana viva. Ecco perché il Signore ci chiede di non guardare con indifferenza, ma di “sporcarci le mani” come il Buon Samaritano, che si è chinato sul ferito, si è preso cura di lui e lo ha affidato a un luogo sicuro.
Carissimi,
in questo giorno di speranza, mentre rendiamo grazie a Dio per il dono della vita, invochiamo con fiducia l’aiuto di Maria, Madre di Lourdes.
Apriamo il nostro cuore affinché la Parola di Dio di oggi ci scuota dal torpore di un’osservanza puramente esteriore e ci conduca a quell’amore vero che nasce dal cuore e si fa opera concreta verso i malati e i sofferenti.
Affidiamo tutti i malati alla tenerezza del Signore, certi che la loro sofferenza non è mai inutile, ma, unita a quella di Cristo, diventa sorgente di luce e di salvezza per il mondo.
Con i malati affidiamo anche tutti gli operatori sanitari perché ricevano il coraggio e la forza nel portare avanti, con devozione e spirito di amore le fatiche di ogni giorno, diventando, con i loro gesti, le loro scelte, i loro sguardi e attenzioni, portatori di pace e strumenti di speranza.
Chiediamo, infine, anche la grazia di scorgere, in ogni fratello e sorella che soffre, il volto di Gesù, per servirlo con amore, nella certezza che «era cosa molto buona» (Gen 1,31) l’opera delle mani di Dio, e che nulla potrà mai spegnere la dignità e la speranza di chi ripone la fiducia nel suo Creatore.
Amen!
+ Sabino Iannuzzi
[1] «Riscopriamo le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti» (Francesco, Misericordiae vultus, 15).