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Festa Patronale di San Nicola e San Francesco da Paola: l'omelia di Mons. Sabino Iannuzzi

Sabato 11 Maggio 2024 Mons. Sabino Iannuzzi ha presieduto la Santa Messa in onore dei Santi Nicola e Francesco da Paola, Patroni della Diocesi e della città di Castellaneta. Presente il Sindaco di Castellaneta Dott. Giambattista Di Pippa, le varie autorità civili e militari e le Confraternite della citta. Di seguito l'omelia pronunciata da Mons. Vescovo.

Carissimi fratelli e sorelle,

buona festa dei nostri SS. Patroni, Nicola e Francesco da Paola.

Come da tradizione li ricordiamo insieme per rinnovare il nostro atto di affidamento che culminerà, prima della processione, nel gesto simbolico della consegna delle chiavi della nostra Città a sottolineare quella relazione, quotidiana e continuata, con i due santi Patroni.

Iniziando questa mia omelia, saluto caramente il Vicario generale don Renzo, don Mauro, don Oronzo, don Roberto e padre Gregorio, Parroci delle cinque comunità parrocchiali di Castellaneta, che da quest’anno hanno scelto di ritrovarsi “insieme”, come un’unica e sola grande comunità, per “condividere insieme” il prepararsi alla festa: segno, bello e credibile, di chi si sforza di percorrere la strada del “camminare insieme” da fratelli e sorelle, per “rinnovarsi rinnovando”.

Con loro, saluto anche gli altri sacerdoti presenti e i confratelli frati minori.

Un saluto particolare al caro dott. Gianni Di Pippa, nostro Sindaco e con lui alle altre autorità civili e militari presenti. Così come ai sodali delle cinque Confraternite presenti in città ad iniziare da quella di San Francesco da Paola che si preoccupa di questi festeggiamenti.

Quest’anno la nostra festa patronale coincide con la Solennità dell’Ascensione del Signore che, proprio attraverso la testimonianza dei nostri Santi Patroni, ci permette di comprendere il significato dell’esperienza del nostro cammino di fede, avendo gli occhi ben fissi verso la meta del nostro “pellegrinaggio di speranza”, senza la «paura di puntare in alto, di lasciarsi amare e liberare da Dio, facendosi guidare dallo Spirito Santo, laddove l’incontro della nostra debolezza con la forza della grazia, rende possibile la gioia della santità della vita» (Cf. Gaudete et exultate, 34).

Il mistero dell’Ascensione stabilisce il ritorno definitivo di Gesù nel seno del Padre e, insieme (Padre e Figlio), inviano lo Spirito Santo, come a costruire un ponte d’Amore tra il cielo e la terra, che genera una continua ed ininterrotta vicinanza. Sant’Agostino, spiegando questo movimento del Signore, sottolinea che Gesù quando si è incarnato di fatto non ha mai lasciato il cielo per la sua divinità, così come non ci lasciò soli quando fece ritorno al cielo. Infatti, al versetto alleluiatico abbiamo condiviso la sua promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt, 28,20).

È proprio da qui che trae motivo il richiamo dei «due uomini in bianche vesti» che si presentarono ai discepoli – e ancora oggi lo raccomandano a ciascuno di noi - «perché state a guardare il cielo?» (At 1,11). Se «questo Gesù che è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (ivi) perché continuiamo a guardare il cielo?

Noi crediamo in un Dio vicino e lo ripetiamo in ogni celebrazione: “il Signore è con te”. E’ accanto a ciascuno di noi. È una presenza, sì misteriosa, ma da riscoprire nella vita di tutti i giorni, nei volti delle persone che abbiamo accanto, vivendo la storia che siamo invitati a vivere; vivendola momento per momento in ogni avvenimento che ci vede coinvolti.

Le prime comunità cristiane avevano forte la consapevolezza che il Signore era loro vicino. Su questa certezza si fondava la loro testimonianza, il loro stile di vita e per questo non si lasciavano sopraffare dalle lusinghe di chi li induceva a rinnegare la fede. Fu questo che permise alla gente di capire che i cristiani non erano un “manipolo di cani sciolti” e, così, dando loro fiducia si convertirono con l’annuncio del Vangelo.

I santi, nella vita della Chiesa, sono testimoni autorevoli con la loro umanità – fonte di continua meraviglia - di questa presenza del Signore che continua a compiere, con la collaborazione di ciascuna persona umana, il suo provvidenziale progetto creativo, per la realizzazione di un mondo sempre migliore.

Ed allora come non pensare all’azione dei nostri due Santi Patroni.

San Nicola (vissuto a cavallo del III-IV secolo) fu testimone esemplare dell’unità tra la verità e la carità.

Nella sua vita si impegnò non solo a diffondere la verità del Vangelo (attento a custodire – difendendola - la fede), ma anche ad andare incontro alle necessità dei poveri e dei bisognosi. Fece suo, infatti, l’assioma paolino: «fare la verità nella carità» (Ef 4,15); laddove verità e carità sono i nomi propri di Dio.

Una testimonianza, quella di San Nicola, che ci ricorda che non possiamo dirci cristiani se non siamo disposti a vivere “concretamente” di verità e di carità. Se, questi “due doni di Dio”, non li teniamo “insieme” e non li incarniamo concretamente nella quotidianità, come espressione della volontà di Dio.

San Francesco da Paola, dal canto suo, vissuto nel XV secolo, con la sua vita, oltre alla significativa testimonianza del servizio d’amore, richiamata sempre nella sua iconografia con il medaglione al petto e la scritta caritas, ci ricorda la dimensione dell’essenzialità (fatta di piccole cose, ma con scelte di radicalità evangelica), del proiettarsi continuamente nel Signore, non fermandosi però alla semplice contemplazione del cielo, ma scegliendo di guardarsi intorno, così da vivere la sua totale donazione “in” Cristo “per e con” gli altri. È questo che diede autenticità alla sua vita, rendendolo “luce” di riferimento, ossia consiglio, per quanti lo ricercavano. Raccontano infatti i suoi biografi che era capace di leggere negli anfratti del cuore dei fratelli e delle sorelle che a lui accorrevano, orientandole a vivere in pienezza la propria vita.

Dall’esperienza di questi “due giganti della fede”, che hanno creduto all’amore che Dio ha per l’uomo (Cf. 1Gv 4,16) e che oggi celebriamo, siamo richiamati alle nostre vicende personali e comunitarie, alle vicende della nostra Città, che li ha voluti suoi patroni.

In questa circostanza, vi esorto a fare vostre le parole di una vecchia canzone di Claudio Baglioni: «A volte, più che di un mondo nuovo, c’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo».

È quello che i santi in genere ed in particolare i nostri due patroni, che non sono stati di certo dei super-eroi, hanno saputo fare.

Si tratta di accogliere una felice intuizione: le meraviglie del mondo sono tante, ma ci vuole lo stupore della persona umana, cioè la sua capacità di vedere e di meravigliarsi, per scoprirle.

Dobbiamo sconfiggere il pragmatismo della nostra vita che ci induce a fermarci sempre e solo sul sensibile. Dobbiamo recuperare l’interesse allo stupore, come quello dei bambini che si innamorano dinanzi ad ogni cosa. La capacità di stupirsi – ricorda Papa Francesco – è «la misura, il termometro della nostra vita cristiana».

Se c’è una cosa da chiedere - sempre ai santi - è quella di insegnarci la via per vivere da cristiani e da cristiani credibili. Non dimentichiamo quello che annunciava San Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Evangelii Nuntiandi, n. 41). Una credibilità che sia coerenza piena e invincibile tra fede cristiana e vita.

San Paolo nella seconda lettura, scrivendo alla comunità di Efeso, ricorda alcuni tratti essenziali per la vita del cristiano. Tratti che sono per tutti coloro che sono stati chiamati con il primo e fondamentale appello, quello del sacramento del Battesimo in cui hanno ricevuto la loro nuova identità: essere per Cristo, con Cristo e in Cristo.

L’apostolo delle genti sembra ripetere a ciascuno di noi, iniziando da me Vescovo: vuoi essere davvero cristiano?

Allora: comportati in maniera degna… e vivi anzitutto con umiltà (Ef 4,2).

Virtù che ci invita a non pensare in grande di sé stessi, ma ad avere la misura giusta. Infatti, il suo contrario è la superbia, radice di tutti i peccati. La superbia che è l’arroganza di colui che vuole ad ogni costo il potere, il desiderio di apparire agli occhi degli altri, essere riconosciuto al di là ciò che realmente è, al solo scopo di piacere anzitutto a sé stesso ed essere accettato e quasi “venerato” dagli altri. È quell’io posto al centro del mondo: di quell’io che sa tutto.

Essere cristiano, allora, vuol dire impegnarsi a superare questa tentazione che è quella originaria: essere come Dio, ma senza Dio.

Essere cristiano allora significa essere vero, sincero, realista.

L’umiltà è soprattutto verità. Ossia la capacità di imparare che la vera grandezza è piuttosto “la piccolezza della vita” ed in questo modo si diventa davvero utili per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità.

L’umiltà è appunto vivere la verità e viverla in comunione (cioè stando) con gli altri e mai senza l’Altro, «sopportandosi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

San Paolo, tra l’altro, aggiunge che i cristiani non debbono essere rabbiosi, né egoisti, ma dolci e magnanimi, ossia dal “cuore grande”.

Si tratta di caratteristiche che ribadiscono la volontà di Dio, il quale non ci vuole persone deboli o fragili di fronte alle realtà del mondo, ma ci ha pensati come protagonisti della storia, solleciti a vivere la vita fino in fondo, senza lasciarsi vivere dagli altri.

È bello che nel Vangelo Gesù assicuri la sua continua presenza.

Piuttosto che restare a guardare il cielo esorta gli Undici - e noi con loro - ad “andare”. Cioè a muoversi e a vivere il dono del battesimo che abbiamo ricevuto. Il dono della vocazione che ci è stata consegnata nel suo progetto d’amore.

“Andate”, ossia uscite nella città della vita di tutti i giorni, perché è proprio lì che bisogna vivere come il Signore ci ha insegnato, consapevoli che al suo invito farà seguito la certezza della sua presenza: «non vi lascerò orfani, tornerò da voi» (Gv 14,18), con «i segni che accompagneranno quelli che credono» (Mc 16,17).

Nel mandato missionario, il Signore, assicura cinque segni della salvezza che è dato anche a noi di poter vivere nella misura in cui avremo la capacità (la forza) di mettere in circolo, da protagonisti, la nostra fede.

Il Signore allora – sull’esempio dei nostri Santi Patroni – ci esorta a «scacciare i demoni» presenti nella nostra vita. Siamo invitati a lottare contro le nostre divisioni, abbattendo i muri di separazione. Pensiamo ad esempio per un attimo a tutte quelle relazioni attraversate spesso da rabbia e da ira, generatrici di conflitti. Sono questi i demoni che dobbiamo vincere ed il Signore è pronto ad aiutarci.

Il Signore ci esorta poi a «parlare lingue nuove».

È l’invito a parlare in un modo diverso. Quante volte, purtroppo, la nostra parola è usata per offendere e distruggere? Pur invitati a parlare lingue nuove, continuiamo ad usare lingue vecchie: quelle della rabbia e dell’odio, avvelenando ed avvelenandoci. È l’esortazione ad aprirsi all’ascolto, acquisendo quell’intelligenza del cuore che permette di comunicare con tutti, con una lingua universale che è tenerezza, cura e rispetto.

Il Signore ci chiede, ancora, di «prendere in mano i serpenti». È l’invito ad avere il coraggio di affrontare ogni prova della vita. Prove che di certo non mancano mai. Consapevoli, però, che nella misura in cui, condivideremo la presenza del Signore, non saremo mai a soccombere.

Così come «se berremo qualche veleno, non avremo alcun danno». E di veleno nel mondo d’oggi se ne sperimenta non poco. «Ci si avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi…» (Cf. Gaudete et exultate 161). Papa Francesco spesso ripete: «le lamentele sono un veleno all’anima, un veleno alla vita». «Il cammino della santità è piuttosto una fonte di pace e di gioia che lo Spirito Santo ci dona e ci esorta ad essere delle “lampade accese”, rimanendo sempre attenti e prudenti» (Cf. Gaudete et exultate 164).

Ed in fine il prodigio delle guarigioni. Le malattie del corpo, purtroppo, le avremo sempre. Ma ci sono alcune malattie, come la mancanza di speranza, che possono e debbono essere guarite.

Il Signore, proprio attraverso l’intercessione dei santi, ci offre un aiuto concreto alla guarigione. Ma ci richiede di continuo la nostra disponibilità a voler aderire alla sua proposta di sequela con animo grato, coscienti che «la nostra cittadinanza infatti è nei cieli, da dove aspettiamo pure il Salvatore, il Signor Gesù Cristo» (Fil 3,20).

Papa Francesco indicendo il Giubileo del 2025 ci ha ricorda che «la speranza non delude» (Rm 5,5) e ci chiede di farci “pellegrini di speranza”, per sperimentare «un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù “porta” di salvezza» (Spes non confundit, 1).

Chiediamo l’intercessione ai nostri Santi Patroni affinché ci «lasciamo attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi (la speranza) diventi contagiosa per quanti la desiderano… così che la forza di questa virtù possa riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va lode e gloria ora e per i secoli futuri. Amen» (ivi, 25).

+ Sabino Iannuzzi