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Santa Messa in suffragio di Papa Francesco: l'omelia di Mons. Sabino Iannuzzi

Giovedì 24 Aprile 2025 la comunità diocesana si è ritrovata presso la Chiesa Cattedrale di Castellaneta per vivere la Santa Messa in suffragio di Papa Francesco presieduta da Mons. Sabino Iannuzzi. Di seguito la sua omelia. (Foto: UCS Castellaneta - Maria Rosa Patruno)

Carissimi fratelli e sorelle,

grazie… perché con la vostra presenza avete risposto l’eccomi della fede a quest’ultima chiamata di Papa Francesco.

Grazie alle autorità civili qui presenti, i Sindaci delle nostre Comunità, ai confratelli presbiteri, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose alla corale Diocesana, ai rappresentanti di associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali e delle Confraternite..

Mentre il tempo di Pasqua avanza e la liturgia ci raduna attorno al Risorto, la nostra assemblea desidera oggi elevare al Padre un’intensa preghiera di suffragio – un autentico rendimento di grazie - per Papa Francesco, che tante volte ci ha ricordato: «Per favore, non dimenticatevi di pregare per me».

Non stiamo celebrando una semplice commemorazione; viviamo piuttosto il memoriale della Pasqua, attualizzazione dell’unico sacrificio di Cristo che attraversa i secoli e - in questo “oggi” di grazia - avvolge anche la vita e la storia di colui che, negli ultimi dodici anni, è stato al timone della barca di Pietro con la forza disarmante del Vangelo.

La Parola appena proclamata è per noi un ponte che collega la storia della salvezza al magistero di Papa Francesco.

Nel libro degli Atti, l’apostolo Pietro al portico detto di Salomone – dopo il prodigio che restituì vigore alle gambe dello storpio – rifiuta ogni gloria personale e orienta lo sguardo su Gesù, il Servo glorificato.

A quel popolo «fuori di sé per lo stupore» (At 3,11) chiede che «si lasci convertire e cambi decisamente vita, perché si realizzino i tempi nuovi della consolazione» (cfr. At 3,19-20), così che la speranza rifiorisca nelle loro vite.

È lo stesso movimento che Papa Francesco invocò fin dalla sua prima esortazione apostolica post-sinodale Evangelii gaudium: uscire dalle nostre autoreferenzialità per essere una Chiesa missionaria, restituendo gioia piena al respiro del Vangelo. Forte fu il suo appello, che di fatto segnerà poi la cifra del suo pontificato, «non lasciamoci rubare la speranza» (Evangelii gaudium 86).

Infatti, sin da quella sua prima apparizione, il 13 marzo 2013, con un semplice «buonasera» dalla Loggia delle Benedizioni rivelò che il ministero petrino avrebbe parlato con il linguaggio della quotidianità, della strada e della familiarità: con uno stile pastorale vicino alla gente e carico di tenerezza, da «pastore con l’odore delle pecore» (cfr. Francesco, Omelia della Messa crismale, 28 marzo 2013). Accompagnato da un tratto caratteriale che, fin da subito, colpì tutti: il suo sorriso.

Non un gesto di facciata, ma la crepa luminosa attraverso cui traspariva tutta la forza della letizia del Vangelo.

Sorriso che spalancava le porte prima ancora delle parole, facendo sentire accolti i lontani, i non credenti e i feriti dalla vita.

Era il “primo sacramento” di una Chiesa includente, capace di farsi prossima senza condizioni. Un sorriso che diceva: qui c’è posto per tutti, nessuno escluso.

Da quel disarmante saluto feriale fino all’ultimo «buona Pasqua», pronunciato dalla stessa Loggia, Domenica scorsa – 20 aprile 2025 – prima di far leggere il testo del messaggio Urbi et Orbi, si dispiega - come un arcobaleno - un arco ricco di eventi, documenti, e soprattutto gesti.

Basti ricordare ad esempio l’enciclica Laudato si’ e l’esortazione apostolica Laudate Deum, che ci hanno insegnato a contemplare e custodire la casa comune; l’enciclica Fratelli tutti, quale grido profetico contro l’individualismo e proposta di fratellanza universale fondata sulla compassione e sull’incontro; l’esortazione post sinodale Amoris laetitia, che ha guardato con misericordia le famiglie ferite; fino all’ultima enciclica Dilexit nos, sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo, che quasi come testamento pone un sigillo sul suo pontificato, perché solo «abbeverandoci [alla fonte di] questo amore, diventiamo capaci di tessere legami di fraternità, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune» (Francesco, Dilexit nos, 217).

In tutto ciò, non possiamo poi dimenticare il suo instancabile impegno per la pace, fino ad essere, come Giovanni Battista, «voce solitaria di uno che grida nel deserto» (cfr. Gv 1,23): dagli appelli accorati per Siria, Ucraina e Terra Santa, alle veglie di preghiera che hanno riunito credenti e non credenti in un’unica supplica; dal pellegrinaggio in Sud-Sudan con i leader delle Chiese riformate al gesto storico di inginocchiarsi davanti ai governanti sud‑sudanesi perché deponessero le armi.

Per lui la pace non è stato un semplice capitolo diplomatico, ma il respiro stesso del Vangelo; l’incarnazione della settima beatitudine: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt. 5,9). Operatore di una pace che «richiamava al dinamismo di un amore che per sua natura è creativo, orientato alla ricerca di strade di riconciliazione a qualunque costo, fino al dono della propria vita, perché la pace è da cercare sempre e comunque» (cfr. Francesco, Udienza generale, 15 aprile 2020). Tanto da concludere il suo testamento scrivendo: «La sofferenza che si è fatta presente nell’ultima parte della mia vita lo offro al Signore per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli» (Francesco, Testamento, 29 giugno 2022).

Ugualmente decisiva fu l’esperienza della misericordia.

Nel suo primo Angelus, partendo dal pensiero di un libro del Card. Kasper, affermava: «sentire misericordia… cambia tutto. È il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo. Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza … Lui mai si stanca di perdonare, ma noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono» (Francesco, Angelus, 17 marzo 2013). E da qui l’invito a vivere l’Anno Giubilare straordinario della Misericordia, «quale segno visibile della comunione di tutta la Chiesa» (Francesco, Misericordiae vultus, 3).

Un anno attraverso cui ha cercato di dare impulso concreto all’impegno di vivere cristianamente le opere di misericordia corporale e spirituale, invitando le singole comunità a trasformarsi in “luoghi di misericordia”, accoglienti e generosi.

Infatti, ripeteva spesso: «La misericordia non è un’idea astratta, ma una realtà concreta» (ivi, 6) ed esortava: “Non stancatevi di essere compassionevoli”. Espressioni, queste, con cui ci ha esortati a scardinare le serrature dell’indifferenza e a restituire dignità a chi si pensava scartato.

In ogni visita pastorale – fino all’ultima compiuta al Carcere Regina Coeli di Roma otto giorni fa – egli ha tradotto la tenerezza del Padre in gesti semplici ma potenti, intrisi di spiritualità. Ha asciugato lacrime, ha benedetto feriti, ha stretto mani insanguinate dalla disperazione. Ai sofferenti ha portato speranza, ai carcerati ha annunciato perdono, agli ultimi ha testimoniato che nessuno è solo.

Tutta la sua vita è stata una scuola di misericordia vivente. Chi incontrava il Papa portava a casa non solo uno sguardo di benevolenza, ma la certezza che il cuore di Dio si apre sempre a chi si pente e a chi vive il bisogno di consolazione.

Ma il filo d’oro che ha attraversato ogni pagina del suo magistero è stata la speranza.

Non a caso l’Anno Santo che stiamo vivendo ha voluto che fosse consacrato proprio ad essa, quale «occasione per rianimare la speranza» (Francesco, Spes non confundit, 1), consapevole del monito paolino che questa virtù «non delude» (Rm 5,5) perché è fondata sull’amore che lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori.

Il Salmo responsoriale che abbiamo pregato insieme poc’anzi ci sospinge in questa stessa direzione: «Che cosa è mai l’uomo perché di Lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8).

Fratelli e sorelle, alla radice di ogni speranza c’è la memoria di Dio, il suo “ricordarsi” che abbraccia l’intera umanità.

È ciò che abbiamo contemplato nella pagina evangelica di Luca: Gesù appare ai discepoli turbati, donando loro la pace e mostrando le mani e i piedi (le piaghe della nostra salvezza). Per rassicurarli che la risurrezione non è l’apparizione di un fantasma, ma carne viva e condivisa, chiede loro «Avete qui qualcosa da mangiare?» (Lc 24,41).

In quella mensa, umile ed improvvisata, rivivono tutti i gesti di Papa Francesco che ha voluto toccare sempre la carne ferita del mondo: i pranzi con i poveri, le visite inattese nelle periferie, gli abbracci ai bambini e agli anziani, la lavanda dei piedi nelle carceri. Non gesti di gloria umana per apparire, ma prolungamento sacramentale della Resurrezione, quale segno di una Chiesa che non esclude ma include, che non punta il dito ma tende la mano, che non erge muri ma costruisce ponti.

Questo desiderio di inclusione - in Papa Francesco - di certo è stato frutto del connubio singolare della sua identità: il gesuita con il cuore di Francesco d’Assisi.

Figlio spirituale di sant’Ignazio di Loyola, nutriva la preghiera del discernimento, l’intelligenza della missione e la passione per le frontiere culturali; ma al tempo stesso, scegliendo il nome Francesco - direbbero i latini: nomen omen (cioè: il nome è augurio) - volle assumere la semplicità che predica con la vita, la povertà che libera e la fraternità che disarma.

In lui si sono abbracciati l’ardore contemplativo della Compagnia di Gesù – contemplativus in actione – e la tenerezza francescana della minorità, quasi a dire che la Chiesa sarà credibile solo se saprà unire: profondità e semplicità, esercizi dello spirito e carezze della carne.

In questo contesto celebrativo vorrei provare ad aprirvi il mio cuore e raccontare l’incontro che porto dentro come una piccola icona del suo modo di essere pastore.

Il 27 gennaio scorso, entrando nella Biblioteca Apostolica per un’udienza privata, vidi un uomo fisicamente provato ma con quel sorriso intatto, capace di sciogliere il ghiaccio. Si trattava di un incontro sollecitato, più che voluto. Mi accolse con una stretta di mano calda e paterna, con un sorriso che infondeva serenità e pace nel cuore, con un’umanità dallo sguardo benevolo, intento ad ascoltarmi, desideroso di conoscermi, con dovizia di particolari.

Parlammo per oltre venticinque minuti e quando seppe che la nostra Chiesa locale contava circa centoventicinquemila fedeli, con fine umorismo - forse anche per sdrammatizzare l’oggetto del nostro colloquio - mi disse: «È come una media parrocchia di Buenos Aires». Mi stupì, non poco, il fatto che conoscesse già alcuni particolari del nostro cammino ecclesiale e, prima di congedarmi, dopo avermi impartito la benedizione, mi disse, come balsamo su alcune ferite: «Vada avanti sempre con gioia». Non era un semplice augurio, ma la certezza che quella gioia – la stessa che gli illuminava il volto – è la sola che può aprire sentieri nuovi anche quando la strada diventa ripida.

Ecco, allora, fratelli e sorelle, la sfida che ci è posta dinanzi: trasformare il ricordo in decisione, la nostalgia in missione.

Se davvero crediamo che «questo è il giorno fatto dal Signore» (Sal 117,24), la Pasqua, in cui «rallegrarsi ed esultare» (ibidem), permettiamo che l’Eucaristia che stiamo celebrando diventi lievito di speranza per le nostre famiglie, le nostre comunità parrocchiali, le nostre istituzioni, i nostri luoghi di lavoro, le nostre periferie esistenziali e sociali.

Cristo risorto, che oggi si dona a noi nel pane e nel vino, ci invia a essere testimoni di ciò che abbiamo contemplato.

Non basta parlare di inclusione: occorre spalancare le porte, rifiutare ogni forma di esclusione e di scarto, dar voce a chi non ne ha, imparare lo stile della fraternità sinodale che Papa Francesco ha tanto desiderato e per il quale tutto si è speso fino alla fine.

Mentre presentiamo all’altare il pane e il vino, offriamo al Signore anche la vita ed il magistero di Papa Francesco: le sue gioie e le sue fatiche, il suo sorriso e le sue lacrime, le parole pronunciate e quelle taciute… il “domani” della nostra Chiesa.

Chiediamo che il Padre lo accolga alla mensa eterna, dove il suo sommesso «buonasera» si è trasfigurato in canto di lode senza tramonto, e dove il suo ultimo «buona Pasqua» risuona come benedizione universale di pace.

Perché, come si chiedeva nella Bolla di indizione di questo Giubileo: «Cosa sarà dunque di noi dopo la morte? Con Gesù al di là di questa soglia – affermava - c’è la vita eterna che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione al suo amore infinito. Quando adesso viviamo nella speranza allora lo vedremo nella realtà» (Spes non confundit, 21). E per lui oggi questa realtà è certezza!

A noi, fratelli e sorelle, il compito di continuare – con la forza dello Spirito – la sua passione per una Chiesa pellegrina e in uscita, povera ed inclusiva, capace di ascoltare prima di parlare, di accompagnare prima di giudicare.

Maria Santissima - la Salus populi romani - alla quale Papa Francesco è stato tanto devoto, presenti questo suo Figlio al Dio della vita ed ottenga per lui la gioia dell’abbraccio eterno del Padre. Andiamo avanti sempre con gioia.

Amen!

+ Sabino Iannuzzi